I cioccolatini italiani fanno gola ai turchi, purché non siano prodotti in Italia. Il caso Pernigotti non è infatti, e purtroppo, isolato.
Prima che la proprietà turca dello stabilimento piemontese annunciasse la chiusura della Pernigotti, in Valle d’Aosta era già naufragata l’avventura di altri imprenditori turchi che, con il sostegno della Regione autonoma, avevano rilevato lo storico stabilimento della Feletti di Pont St. Martin promettendo un rilancio che non c’è stato e che, anzi, ha portato alla scomparsa del marchio e dei lavoratori.
Nel caso di Feletti il marchio aveva una notorietà più circoscritta, nonostante la qualità elevata, e dunque erano più interessanti i contributi pubblici. Mentre per Pernigotti il discorso era diverso. Il marchio ha una buona notorietà e, dopo averlo acquistato, i nuovi proprietari avevano già trasferito alcune produzioni in Turchia, ovviamente presentate con il marchio italiano che ha molto più fascino a livello internazionale.
In fondo la vicenda turca rappresenta solo una ennesima conferma di cosa rappresenti concretamente lo shopping di aziende italiane da parte di gruppi stranieri.
La famosa “capacità di attrazione degli investimenti” benedetta da Confindustria e da politici ignoranti che confondono gli investimenti per nuovi progetti (benvenuti) con acquisizioni che puntano solo a trasferire la produzione all’estero conservando il marchio italiano.
Ovviamente non tutte le acquisizioni sono una sorta di rapina.
Quando Volkswagen ha acquistato Italdesign Giugiaro non si è limitata a conservare il marchio, ma ha rafforzato ed ampliato la sede torinese, con nuove assunzioni.
Lo stesso vale per alcune case di moda passate sotto il controllo estero ma rimaste saldamente in Italia.
Però troppo spesso le acquisizioni sono servite esclusivamente per appropriarsi di marchi italiani da utilizzare per vendere in tutto il mondo abiti realizzati in Asia o in Africa, prodotti alimentari che di italiano hanno solo la bandierina sulla confezione. Oppure si sono acquistate piccole industrie per chiuderle trasferendo macchinari ed impadronendosi di brevetti.
Indubbiamente un capitalismo predatorio, ma in tutto questo scenario dov’erano i prenditori italiani? A frignare perché in Italia non si può fare impresa mentre i loro colleghi stranieri, quelli onesti, acquistavano aziende italiane continuando a fare impresa nella Penisola? Dalla meccanica all’aerospazio, dal tessile all’alimentare, dall’energia ai trasporti ci sono numerosi gruppi stranieri che producono, e guadagnano, in Italia.
Ma occorre saper distinguere gli investitori dai rapinatori.