Luna a gibbosa calante. Tuttavia ancora abbastanza piena. E brillante. Uno sfavillare sorprendente in un cielo freddo. Dopo due giorni di pioggia intensa e nubi cupe.
Sono solo. In terrazza. Il rumore di rade macchine sulla strada non lontana. Gli ultimi rientri, veloci, verso casa. Anche perché non c’è altro posto, ormai, dove andare. Tra poco… Il coprifuoco. Mi viene da ridere, ridere amaro, solo ad utilizzare questa parola. Che racchiude in sé tutto il non senso di ciò che stiamo vivendo. Di ciò che una parodia di dittatore sta proclamando in televisione. Di fronte ad una parodia di popolo.
Ogni popolo ha il governo che si merita. E i tiranni che si merita. Il vecchio barbone di Treviri aveva per altro ragione: la Storia si presenta prima come tragedia. Poi come farsa…
Ma non ho voglia di pensarci. E di adirarmi. In fondo comincio a capire Seneca. L’ira non serve. Non cambia la realtà. E ti fa solo del male.
Guardo la Luna. E penso a infinite lontananze. No. Non è l’inquietudine romantica che porta a desiderare di essere sempre in altro luogo. Diverso da quello usuale. È un sentimento, o meglio una sensazione ancora non riflessa dal pensiero, di tutt’altro tipo. Se vogliamo, una sorta di anelito.
Chissà perché, ma la mia fantasia vola verso Nord. Molto a Nord. Addirittura al Polo… Non il Polo Nord reale, naturalmente, non quel punto d’incrocio di coordinate geografiche.
L’altro Polo Nord. Quello… mitico. Perché vi è sempre una geografia mitica, o meglio “sacra” che si può scorgere in controluce, trasparire dietro a quella “fisica”.
Le dimore polari degli Iperborei. Dove si ritirava Apollo nella stagione invernale. La terra, la Grande Isola, ove il Sole splende in un cielo limpido per tutti i sei mesi invernali, e dove “non potrai giungere né per terra, né per mare” come canta Pindaro. Che, evidentemente, ricordava – nel senso etimologico del termine – come questo non fosse un luogo fisico. Non solamente fisico, per lo meno. E lo comprese Nietzsche, nell’imminente follia di una delle pagine più suggestive de “L’Anticristo”: Oltre il ghiaccio, oltre la morte…
Da lì, da quella dimora polare, il Bailly fece discendere tutte le civiltà umane. Dall’India Vedica alla Grecia. E forse non a caso Pitagora veniva appellato dai suoi concittadini di Crotone come “Apollo Iperboreo”. Erede di una sapienza arcana, che si traduceva nelle pure forme geometriche. Pure e incantevoli, come cristalli di neve e architetture di ghiaccio…
Vi è stato chi ha cercato quelle Dimore sul piano puramente fisico. Viaggi di esplorazione perigliosi, a rischio della vita. Esplorazioni alla ricerca, in taluni casi, di radici perdute e recise. Di una sorta di culla “nobile” della stirpe umana. Dell’era, mitica, in cui gli uomini ancora incontravano gli Dei… Spedizioni vane. Perché hanno trovato solo un deserto di ghiaccio. L’unica cosa che i nostri occhi possono, oggi, vedere. E la nostra mente concepire.
La fantasia, patrimonio sempre più raro dei bambini, pone lì, al Polo Nord, il villaggio di Babbo Natale. Luogo incantato, popolato da laboriosi elfi e dove si può giungere solo con la magia. Luogo di meraviglie e favole. Descritto nei modi più diversi e circondato di un alone di mistero che il moderno immaginario natalizio cela sotto un velame zuccheroso. Boschi di bastoncini di zucchero, selve di abeti natalizi rilucenti, pupazzi di neve che conversano fumando la pipa, renne che volano… Tutta l’iconografia elaborata dal genio creativo degli Studios disneyani, partendo da una matrice vittoriana. Che sembra uscire da un racconto di Dickens…
Eppure questo maschera, ma non vanifica l’incanto originario. Il Polo Nord continua ad essere il luogo metafisico dei “doni”. La dimora del Sole che splende diradando le nebbie della paura e sciogliendo il gelo che attanaglia il cuore…
Chissà… forse esiste, da qualche parte, un treno incantato che, come in “Polar express” di Zemeckis, conduce al paese di Santa Claus… Il problema è dove trovare il biglietto…