Un tempo… Già, c’era una volta… Tu sei sempre lì a ricordare con nostalgia il passato. E con amarezza verso il presente. Non dico che chi mi rivolge tali critiche abbia poi tutti i torti. Giovane non sono, e lodare il tempo passato è, certo, da sempre segno di senilità… Tuttavia qualcuno mi dica che c’è di bello, o per lo meno di tollerabile, in questo presente. O quale aspettativa ci riservi – ed uso volutamente il plurale – il futuro. Me lo dica e farò ammenda. E poi, scusatemi… Il senso della vita lo si coglie rivedendo il passato. E trovandovi, o dandovi ex novo, un filo conduttore. Una logica. E soprattutto un’estetica… Ogni riferimento a Proust è tutt’altro che casuale…
Comunque, c’era una volta l’uso della poesia di Natale. Che i bambini erano costretti ad imparare a memoria proprio in questo periodo. Per poi recitarla, magari in piedi su una sedia, durante il pranzo del 25. Di fronte a una turba di parenti estasiati…
Quadretto oleografico. Chè per lo sventurato fanciullo era, per lo più, un’indegna tortura, a meno che non fosse una di quelle insopportabili creature petulanti che fanno apparire gli odierni “nerd” esseri di austera e sobria virilità. E quanto ai parenti… beh se si escludono i genitori orgogliosi, sopratutto le madri, per gli altri, in particolare i più giovani, si traduceva in un immenso orchiclasmo. Reso sopportabile solo dall’abbiocco, o meglio coma profondo, in cui stavano scivolando in seguito all’indegna abbuffata natalizia.
Però era una tradizione, con la minuscola, certo. Un uso, se vogliamo, consolidato. E come tutti questi usi, tramandati per generazioni, aveva un suo senso. Dava una cadenza, un ritmo alla Festa. Ed era, per altro, la versione imborghesita e tardo vittoriana, di usi ben più seri, austeri ed antichi.
Evocava, a suo modo ancorché sconclusionato, il senso di Poesia, rigorosamente con la maiuscola, del Natale. Quella poesia che risonava nei canti latini, e da quelli, paraliturgici, in lingua volgare laudi francescane e più laiche “carols” inglesi del quattrocento.
E giunge sino a noi nelle interpretazioni, tanto per fare un esempio, del Pascoli di “La buona novella” con il suggestivo gioco di contrasto fa l’immagine del Presepe, con i pastori che vedono la luce della Grotta e odono la voce degli angeli, e quella di una Roma addormentata dopo le Feste sanguinose dei Saturnalia, dove solo un gladiatore geta, morente, ode l’annunzio… E potremmo ricordare il Natale di D’Annunzio,
“La notte era senza Luna / ma tutta la campagna / risplendeva di una luce bianca ed uguale, /come nel Plenilunio…”
e quello, ben più asciutto e scabro, de l’Allegria di Ungaretti
“Non ho voglia /di tuffarmi /in un gomitolo /di strade. /Ho tanta /stanchezza /sulle spalle…
Senza dimenticare “La coltura degli alberi di Natale” di T. S. Eliot.
“… il rapimento splendido e lo stupore /del primo albero di Natale ricordato/e le sorprese e l’incanto…”
Vi è un qualcosa, nel Natale, che ispira poesia. Una magia che si traduce in emozione estetica. Il contrasto tra Tenebra e Luce. Il paesaggio filtrato da un’aria fredda che diviene come un vetro. Il silenzio della Notte, gravido di attesa. La luminosità della Luna. Le fantasie infantili. Gli echi remoti… Difficile sottrarsi a tale incantesimo. Che va oltre le convinzioni, le fedi. Il mutare dei tempi… Che parla a tutti coloro che, ancora, riescono a concepire, e quindi percepire, la bellezza…
Vi è, o meglio vi era tutto questo dietro a quelle poesiole di una volta. Filastrocche recitate alla bell’e meglio. Talvolta di malagrazia… Eppure vi era una qualche sorta di poesia. Di estetica. E l’estetica è pur sempre una via verso il divino… E credo che von Balthazaar sarebbe d’accordo con me…