Se non filosofi, non vivi. Ti limiti a respirare, mangiare, altre funzioni meramente biologiche. Ma non vivi. Perché la condizione umana necessita del filosofare, come il corpo dell’aria da respirare. Sempre e comunque. Anche per dimostrare che filosofare è… inutile.
Il che può sembrare un paradosso. E in parte lo è. Ma è un paradosso che viene da fonte illustre. Aristotele . Il Maestro di color che sanno, lo chiama Dante… e se lo dice lui…
Intendiamoci. Aristotele non parla di avere una precisa filosofia. Un sistema, più o meno complesso, che spieghi l’universo mondo. Questa, l’esigenza sistematica o di una gabbia ferrea che tutto racchiuda, tutto spieghi, è esigenza tutta moderna. Figlia del razionalismo illuminista, Kant e discendenza. I greci non ragionavano così. La filosofia, per loro, non era una conoscenza stabile ed acquisita. Piuttosto un filosofare. Una continua ricerca e un inesauribile interrogarsi. Come tornerà, poi, ad essere con Nietzsche. E come era per il nostro Leopardi. Come dimostra il fatto che Benedetto Croce non lo comprese. E ridusse tutto il suo “pessimismo” al fatto che era gobbo. Certo, don Benedetto lo dice in modo più raffinato. Ma la sostanza resta questa.
Giorgio Colli, cui dobbiamo la riscoperta della sapienza frammentaria, e folgorante, dei pre-socratici, ha scritto un agile libretto. “Dopo Nietzsche. Come si diventa filosofi”. Oggi, per lo più dimenticato. E, invece, andrebbe riletto, e soprattutto letto, con estrema attenzione. Ma non per diventare filosofi. Piuttosto per comprendere cosa implichi essere uomini..
Filosofare. Quindi… pensare. Attività – sempre che così si possa definirla – che diamo, in genere, per scontata. E che, invece, scontata non è proprio per niente.
Perché più che pensare, noi rimuginiamo “pensati”. Ovvero pensieri già preconfezionati che ci vengono dall’esterno. Massimo Scaligero ha incentrato tutta la sua vastissima opera proprio su questa distinzione. Tra pensare e “pensati”.
Ed è un dato di fatto che l’uomo odierno dovrebbe avere molti più stimoli al “pensare”. O, se vogliamo, al filosofare. Una sorta di cammino senza fine. Che dovrebbe stimolarlo per tutta la vita.
E invece sembra sempre più… passivo.
Incapace non dico di abissali profondità o di cristallina lucidità di pensieri, ma anche solo della minima autonomia. Di pensare qualcosa di “originale”, nel senso etimologico, e non volgarmente comune, del termine.
O, per lo meno, di esercitare una minima facoltà critica nei confronti dei “pensati” (da altri) che gli vengono quotidianamente inoculati. E sui quali fonda tutto il suo dialogo interiore. L’incessante chiacchiericcio fra sé e sé che non ha mai posa. E che, alla fin fine, ottiene solo di ottundere le facoltà autentiche. Di pensiero e percezione.
Filosofiamo sempre meno. Sempre più ingurgitiamo nozioni, sorta di insapore pappone per carcerati, che ci vengono propinate da fuori.
Crediamo di pensare… ma, in realtà, utilizziamo ormai ben poco anche le facoltà razionali. Che sono la base del pensare, ancorché legate ad una visione materiale, a pesare e misurare. Ma che, comunque, richiedono uno sforzo. Al quale ci stiamo, progressivamente, disabituando.
Perché dovremmo pensare? Perché fare fatica? C’è chi lo fa per noi. E ci solleva da ogni problema.
Abbiamo cominciato a delegare a macchine la fatica fisica. Ora stiamo appaltando anche quella mentale. E morale.
Il problema non è, come alcuni sostengono, il relativismo morale che domina il nostro tempo. Quello è, semmai, solo un portato di una, ben più radicale, debolezza. Del pensare. E non è mia intenzione, qui, scomodare Vattimo e la sua teoria del “pensiero debole”.
La debolezza di cui parlo è la rinuncia al minimo filosofare. Quello di Aristotele. Ovvero l’interrigarsi sulle cose. Il non accettare tutto in modo supino.
Siamo nella stagione in cui si preferiscono delle sorta di omogenizzati, di pappe predigerite, al dover masticare una bistecca alla fiorentina. Mancano i denti. E le dentiere.
Coloro che ancora oggi circolano con la mascherina, o cercano disperatamente una farmacia che pratichi ancora i, mitici, tamponi, ne sono solo l’esempio più evidente.
Vi è una crescente corsa verso l’instupidimento. Che, etimologicamente, significa proprio il restare attoniti. Intontiti. Incapaci di arrivare a un minimo pensiero. Non dico un ragionamento.
E questo vale, in primo luogo, per i, cosiddetti, intellettuali. Che, altro gioco di etimologie, dovrebbero essere coloro che lavorano con l’intelletto. Ma questo costa fatica. Lavoro, appunto. Meglio, molto più comodo ripetere come merli indiani frasi fatte. Luoghi comuni. Meglio trangugiare e fare proprie le verità precostituite. In forma di insapori, e disgustosi, omogenizzati. Per poi rivomitarli inondando media, giornali e web.