Devo dire che, da ragazzo, non era proprio uno dei miei film preferiti. Duro quanto basta. E non privo di passioni, sentimenti, emozioni. Il tocco del grande Elia Kazan era unico, inconfondibile. E così la mutria, la maschera di un Brando ancora giovane. E ancora lontano da quella che resta, almeno per me, la sua migliore interpretazione. Don Vito Corleone, naturalmente.
Comunque era un gran bel film. E credo di averlo rivisto più di una volta. Mi resta impressa nella memoria l’appassionata figura di prete resa da Karl Malden, che, ad onor del vero, aveva più la faccia da gangster di Chicago che da uomo di Dio. E poi, soprattutto, l’atmosfera. Il porto come un labirinto. I docks, i magazzini, e vicoli oscuri. Drammi e violenze che vi si consumavano. In un silenzio ovattato…
Ovattato di nebbia. Anche se ora non ricordo se davvero vi fosse la nebbia nella scenografia del “Fronte del porto”. O se questa sensazione mi venga da altre reminiscenze. Da qualche libro, forse, come “Il porto delle nebbie” di Simenon. Il più bel romanzo, il più suggestivo imperniato sul leggendario Commissario Maigret.
E poi vi sono echi di poesie, anche. O meglio frammenti. Ungaretti, con il mistero del suo Porto Sepolto. Campana…
Comunque, come al solito, la sto prendendo un po’ troppo larga. Da vero Dottor Divago, come mi avevano soprannominato i miei studenti. In anni lontani, quando manco potevo avere la scusante dell’italiano…
L’ho presa, dicevo, alla larga. Ma credo che anche il più ingenuo dei miei (molto ipotetici) lettori avrà subito compreso che non di filmografia o letteratura voglio qui parlare. Bensì di… come dire, attualità? Cronaca? Politica? Insomma, per tagliar corto, di questo nuovo Fronte del Porto che sembra doversi aprire proprio in questi giorni. E che sta ricevendo la massima attenzione anche da quei Media, nazionali e privati, che sino ad ora hanno sempre ignorato ogni protesta contro le imposizioni governative nel nome di una, supposta, lotta al Virus.
La protesta, o meglio la lotta dei Portuali, è iniziata da Trieste. E, mentre scrivo, leggo che sono ben cinquemila lì, a braccia conserte e volto duro (o almeno così, me li immagino ), tra le folate di Bora, a bloccare il Porto che rappresenta la principale via d’accesso dal mare all’Europa Centrale. E, di fatto, una snodo cruciale di quella Via della Seta Marittima di cui si fa, negli ultimi tempi un gran parlare. I cinesi, che ne sono i principali promotori, la chiamano, però, in altro modo, più significativo: Il nobile filo di perle. Un filo che collega basi portuali dal Mar Cinese meridionale, passando attraverso l’Oceano Indiano, Suez, il nostro Mediterraneo. Un filo di perle che trova, però, proprio nel Porto di Trieste l’ultima, e per certi versi più splendente, perla. E che rappresenta, con la Via della Seta 2.0 terrestre, l’asse portante della strategia, nonché Dottrina, di Xi Jinping. L’uomo più potente che abbia preso possesso della Città Proibita dai tempi, remoti, di Den Xiao Ping. Una strategia non solo economica, ma anche, anzi sopratutto politica e culturale. Riassunta nel motto: Cooperazione senza conflitti.
E il gigante cinese non vuole, appunto, conflitti che danneggino i suoi affari. Cosa che, invece, quei cinquemila uomini piantati davanti al Porto di Trieste minacciano seriamente di fare. Anche perché sembra stiano venendo seguiti anche dai loro compagni di Genova e Gioia Tauro. In pratica stiamo per assistere ad un blocco senza precedenti di tutta la portualità italiana. Che avrà pesanti ricadute internazionali. Non solo sugli interessi, per altro enormi, di Pechino. Ma anche su quelli della Germania, e su tutta la galassia dei paesi centro europei. Nel mondo, cosiddetto, globalizzato le reti di trasporto rappresentano le arterie vitali di tutto il sistema economico. I Portuali di Trieste minacciano di tagliare una di queste arterie. Di colpire la giugulare dell’economia eurasiatica.
E questo perché il Governo italiano, unico al mondo, ha imposto un sistema di controllo del lavoro oppressivo, lesivo dei diritti costituzionali e civili. Delle stesse libertà naturali dell’uomo. E questo in nome della tutela della salute. La peggiore delle tirannidi cerca sempre di mascherarsi con l’ipocrisia della pubblica salvezza.
Comunque intellettuali, professionisti, professori hanno chinato il capo. Se la sono o bevuta o fatta piacere per paura. I giornalisti, e medici….lasciamo perdere. Le forze dell’ordine e quelle armate mugugnano. Ma quelli pronti a farsi strumenti di oppressione vi sono sempre. Soprattutto generali a caccia di notorietà mediatica.
Poi sono arrivati i Portuali. I Camalli come li si chiamava un tempo. E la loro protesta ha un sapore antico. Evoca fantasmi di lotte sociali del primo novecento. Fantasmi che in tanti avevano voluto dimenticare. A partire dai sindacati, divenuti scherani di regime, rossi, ormai, non più per ideologia, ma solo per la vergogna.
Ma i Camalli in lotta fanno paura. Fosse ancora vivo quel vecchio bolscevico di Edoardo Sanguineti verrebbe certo afferrato da entusiasmo e nostalgia…
Forse mi sto facendo illusioni. Forse finirà tutto in una bolla di sapone. E i Mandarini cinesi non verranno a prendere a ceffoni il Dragone che impera a Roma. Forse non vi è più alcuna speranza per questo paese…
Però mi viene in mente un altro film. Del grande Andrzej Wajda. “L’uomo di ferro ” che vinse nel lontano ’81 la Palma d’Oro a Cannes. Parlava, se non ricordo male, di Danzica. E dei suoi portuali in sciopero. La fine del regime dei Soviet iniziò così…