Il Redentore è passato. Vedo le foto e qualche filmato su fb. Un trionfo di luci e colori nella notte. I Fuochi. E mi sembra di sentire la musica, le canzoni, le voci e le risa che vengono dalle barche. Barche piccole e grandi, che si snodano in corteo lungo il Canal Grande, e poi per quello della Giudecca. Per restare, infine, all’ormeggio di fronte alla Chiesa del Santo Redentore. Uno dei massimi capolavori di Andrea Palladio. Che ne disegnò il progetto ed avviò i lavori poco prima di morire.
Un gioiello architettonico. Ma in materiale povero. Ché la Basilica era destinata ai Cappuccini, che ancora la gestiscono. E la regola francescana più rigorosa, proibisce i lussi e lo sfarzo. Niente marmi, quindi, ma mattoni. E niente dorature. Linee semplici. Essenziali. Come piacevano, per altro, al Palladio. Che si ispirava a Greci e Romani. A Vitruvio, soprattutto.. Che Andrea Palladio aveva letto e compulsato in ogni suo risvolto. Per carpirne i segreti.
Passione iniziata sin da giovanissimo. Quando ancora si chiamava solo Andrea, figlio di Pietro della Gondola, un modesto mugnaio padovano. Della madre, Maria, si sa solo che era detta la Zota. La zoppa. Ed era stato avviato all’arte del muratore. A Padova, prima, poi a Vicenza. E qui era avvenuto l’incontro della vita. Il nobile vicentino Gian Giorgio Trissino. Poeta e dotto umanista. Oggi quasi dimenticato, ma nel ‘500 figura di grande importanza. E non solo nella sua Vicenza, ché era considerato la personalità letteraria di maggior spicco della, cosiddetta, Scuola Romana. Il cuore della tendenza più decisamente classicista di un Rinascimento che già cominciava a volgere verso forme di manierismo.
Come poeta, il Trissino è noiosetto e pedante alquanto. La sua “Italia liberata dai Goti” non può certo reggere il confronto con l’Ariosto e la fantasia dei poeti cavallereschi. Però era spirito fine. E intuì in quel giovane muratore che lavorava nella sua villa, un ingegno raro. Lo prese a ben volere, e lo avviò agli studi umanistici. Portandolo con sé a Roma. E gli diede l’appellativo di Palladio. Uno dei massimi geni dell’architettura d’ogni tempo.
Comunque, il Redentore è opera sua. Del Palladio. Ed ha una storia particolare. Come tutti i grandi monumenti di Venezia.
Infuriava la peste. E il Governo della Serenissima fece voto a Cristo Redentore di una grande basilica, se l’epidemia avesse avuto fine. Si faceva così allora. Si pregava. Si facevano processioni. Si erigevano chiese e santuari. E si continuava a commerciare, amare, combattere sui mari, fare arte. A vivere, insomma.
Comunque, la pestilenza fu sconfitta. Il morbo disparve. Senza vaccini. Con le preghiere e la edificazione della Basilica. Che, ad onta della semplicità francescana, è un vero scrigno di tesori. Oltre all’edificio palladiano, al suo interno opere pittoriche e scultoree. Tanto per citare solo due nomi, Paolo Veronese, coi suoi colori abbaglianti. E Jacopo Robusti, più noto come il Tintoretto…
Da quella volta, per ricordare la vittoria sulla peste – che, per inciso, accoppava il 60/70% della popolazione di una città, lo dico senza nessun spirito polemico, solo da modesto cronachista – a Venezia si fa la precessione in barca del Redentore. Che è vera festa di popolo. Uno spettacolo. Barche illuminate con lumini multicolori, canzoni. E in barca si cena, poi. La cena del Redentore, con i suoi piatti tradizionali. I bigoi in salsa. Grossi spaghettoni di pasta scura, fatti al torchio, in salsa di cipolle e acciughe. E soprattutto il Saor. Sarde fritte, o anche passerini, tenuti a marinare sotto aceto con cipolla imbiondita appena, uvetta passa e pinoli… Sapori che mi sembra quasi di sentire sulle papille gustative, solo nominando le pietanze.
Nostalgia, certo.
Però leggo che il Sindaco di Venezia – vagabondo del cosiddetto Cdx, che in questo è ben bravo a rivaleggiare con la sinistra – avrebbe quest’anno imposto una sorta di Green Pass anticipato per accedere alla città la sera del Redentore.
Geniale. Una festa all’aperto. Tra canali, moli e acqua. Una festa che celebra la vittoria sulla peste. Quella vera. Non la variante Delta.
E già molti si affrettano tutti entusiasti a dire, e scrivere, che ciò che è stato fatto lì, quella sera, dovrebbe servire a modello per tutta Italia….
Non c’è che dire… Non c’è niente da dire. Questo, il sindaco, come dicono i miei coatti romani, a Speranza e compari di governo je fa na…