Taine – Hyppolite Adolphe, un nome che mi è sempre parso insopportabilmente pomposo – ha scritto che, dopo avere a lungo osservato filosofi e gatti, è giunto alla conclusione che i gatti sono molto più saggi dei filosofi…
Non mi sembra, poi, una grande scoperta. Anzi, l’autentica scoperta dell’acqua calda. Soprattutto considerato cosa poteva intendere per “filosofo” il positivista e storicista di Vouziers… che molti considerano il teorico del Naturalismo, le cui idee avrebbero influenzate Bourget, Maupassant, Zola… Che, però, per loro e nostra fortuna, scrivevano con ben altra leggerezza di penna. E nelle loro opere mettevano anche ben altro…

Comunque, la battuta è buona. Anche perché risponde ad una verità molto, ma molto più antica. E qui potrei attaccare il classico pippone – come dicono, alle mie spalle, i coatti cui, con vana pervicacia, cerco ancora di insegnare qualcosa – sul culto egizio di Bastet, la Dea Gatto, antichissimo e arcano simbolo sapienziale… E poi elucubrare sul felino a lungo considerato “famiglio” privilegiato di maghi e streghe… e magari continuare con la storia della gattina di Petrarca, compagna delle solitudini meditative del poeta negli ultimi anni di Arquà… Senza dimenticare la, manifesta, simpatia per i gatti del Profeta, attestata da tutta la tradizione islamica. E i poeti, gli scrittori, poi, che i gatti hanno amato e cantato, il grande T. S. Eliot, Luis Ferdinand Cèline che di gatti viveva circondato… sino alle ossessioni di Dario Bellezza…
Ma qui il discorso è un altro. Non vuole assolutamente essere un excursus dotto, o se preferite un pippone, sul simpatico felino, tanto caro ai cartoni animati e ai fumetti, dal vecchio Felix alle tribolazioni del Gatto Silvestro e del simpatico, ancorché iroso, Tom..
Il discorso, Il mio discorso vorrebbe proprio concentrarsi sulla saggezza del gatto. Superiore, e di molto, a quella del filosofo.

Io ho due gatti. O meglio, due gatti hanno deciso di vivere con me, e di farsi da me nutrire e viziare. La più piccola Kira è una timida figlia di un persiano nero vagabondo. Affettuosa e dolce, ha però paura di ogni cosa. In particolare di quell’indiavolato di mio figlio…
Birbo, invece, è otto chili di tigrato, nato per strada. Un classico gatto da grondaia, come dice la veterinaria. Che viene da Parigi. Birbo, invece, è Veneto, come me. Un mattino aprii la porta ed entrò un gattino macilento e affamato. Da allora sta con me. E ora, per lo più, con mio figlio. Non ha paura di niente, lui. Neppure dei botti di Capodanno. Anzi, si mette in terrazza a guardarli, come fa coi temporali. Con aria impavida e compiaciuta.
Per lo più Birbo dormicchia, si stiracchia, mangia, girella per casa. E mi guarda. In tralice. Con la sua aria sorniona. E vede che mi affanno, mi arrabbio, mi agito nervosamente. E cerco rifugio nella memoria di libri che ho letto. E, almeno in parte, non dimenticato. Ed ho, sempre, la sensazione che se la rida. Di me e dei miei affanni. Ma con bonomia. Come i pioppi di San Guido fanno col professor Carducci. Nel suo sguardo ironico, più che un giudizio, una lezione.
Faccio un esempio: io sono lì che ripenso alla Lettera sulla felicità. A quello che Epicuro scrisse sul non senso di temere la morte. E Birbo mi guarda. E io dimentico Epicuro e mi rendo d’improvviso conto che, per lui, la paura astratta di morire non ha senso alcuno. E non ha bisogno di tanti sillogismi per fugarla. Semplicemente, vive.
Certo, il dolore lo conosce. Come tutti gli animali. Ma non la paura senza sostanza. Che è, invece, quella che paralizza noi uomini. E rende difficili, misere, le nostre esistenze. Leopardi lo ha espresso perfettamente nel suo Pastore Errante. E io mi sono spesso chiesto se, mentre vergava il Canto Notturno, alla flebile luce di una lucerna, avesse davanti a sé, sulla scrivania del palazzo di Recanati, un gatto. Che lo fissava. E compativa…
Penso a Seneca. Alla brevità della vita. Al concetto di Otium e Negotia. Alla necessità di non sprecare il tempo che ci è dato. E guardo Birbo che mangia, soddisfatto, i suoi croccantini. Poi si ferma davanti a me. E mi fissa per un po’. Si gira, e va sulla poltrona in terrazza, a godersi uno spicchio di sole..il primo, e probabilmente fugace, in queste uggiose giornate di pioggia…

Ascolto un telegiornale. Lo faccio, in verità, sempre più di rado. Le solite notizie. O meglio, le solite menzogne. Mi arrabbio, e spengo il televisore. Ma resto contrariato. Umor nero. E Birbo è lì, vicino a me, raggomitolato sul divano. Comincia a fare le fusa. Il suo ron ron mi distende i nervi. Mi rilassa..
Mi fermo qui. Ne avrei, in realtà, tante da raccontare. Pur senza voler dire, o sostenere alcunché di preciso.
Ma Birbo e Kira sono qui, piazzati davanti a me. Mi fissano. È ora di pranzo. Devo riempire le ciotole…