È stato per decenni il simbolo della ripresa dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale. La conferma che i grandi popoli, anche dopo aver subito i massacri nucleari ad opera dei “liberatori” americani, sono in grado di risollevarsi e di guardare avanti senza rinnegare la propria storia plurimillenaria. Poi, però, il Giappone è scomparso dall’attenzione generale, soppiantato dalla Cina che nel 2010 l’ha superato come seconda economia mondiale.
Ma il Paese del Sol Levante non per questo è scomparso dalla scena reale. Resta una potenza economica ed un protagonista politico. Con qualche incertezza in più, acuita dall’assassinio dell’ex premier Abe che, dall’esterno, restava comunque un prezioso punto di riferimento. L’incertezza è parsa evidente in occasione dell’arrivo a Tokyo di Lady Provocazione, Nancy Pelosi, nel corso del tour dell’arroganza che l’aveva portata a Taiwan ed in Corea del Sud (dove è stata ampiamente snobbata). I giapponesi l’hanno accolta con educazione, ma non hanno assolutamente nascosto la totale mancanza di entusiasmo.
D’altronde il rapporto tra il Giappone e gli Stati Uniti è sempre stato complicato. E lo racconta bene Christopher Harding nel suo libro “Giappone. Storia di una nazione alla ricerca di se stessa. Dal 1850 ad oggi”. Pubblicato da Hoepli, finalista al Premio Acqui Storia, offre 480 pagine (27,90 euro) che spaziano dalla cultura alla politica internazionale, dalla psicologia ai manga, dall’economia al malaffare.
Partendo proprio dai rapporti con l’Occidente, con le potenze coloniali prima e con la prepotenza e l’arroganza del commodoro Perry, perfetto simbolo di come gli americani hanno sempre inteso i rapporti internazionali. Un testo ricco di informazioni e di analisi, magari non sempre condivisibili ma sempre interessanti.
Harding ha il merito di condividere con il grande pubblico notizie che troppo spesso erano riservate agli specialisti. Dagli scontri interni tra gruppi di potere al riarmo, alla modernizzazione del Giappone. Sino alla quasi miracolosa ricostruzione, alla non facile convivenza con gli occupanti statunitensi liberi di stuprare ed uccidere (non è una peculiarità nipponica: anche nella colonia Italia la strage del Cermis è rimasta impunita per non infastidire gli occupanti americani).
Passando attraverso l’illusione che la seconda guerra mondiale potesse trasformarsi, sotto la guida nipponica, in una sorta di guerra di liberazione dell’Asia dagli occupanti occidentali. Ma l’atteggiamento giapponese nei territori conquistati non solo non aveva favorito questa unità di intenti ma aveva creato profondo risentimento nei confronti di Tokyo.
Ora, però, il Giappone deve interrogarsi su quale ruolo vuole avere in futuro. Soprattutto in rapporto alla crescente potenza cinese. Tokyo sempre al servizio degli occupanti americani? O con un’accresciuta indipendenza che consenta di confrontarsi con Pechino senza il condizionamento di Washington? Al di là delle rivalità non certo nuove, Cina e Giappone condividono comunque molto a livello culturale. E la cultura, come ricorda Harding, è stato il motore che ha permesso al Giappone di ripartire e di impressionare il mondo intero dopo la disfatta del 1945.