Una foto su fb. La foto del gruppo del Catinaccio, in un tramonto estivo. Dove capisci, senza tante parole, perché lo chiamino il Rosengarten. Il Giardino delle Rose.
E dall’immagine, come spesso avviene, si svolge il flusso delle memorie. Memorie personali e, per analogia, memorie… altre. Che vengono da libri letti, da storie ascoltate, narrate… Ma non per questo meno vere.
Un tramonto in Val Boite. Il Sorapis immerso in una luce rosata. Ed io, ancora ragazzo, che leggevo del Re Laurino. E del suo Giardino di Rose fra le Montagne. Luogo magico. Interdetto agli uomini. Perché è Hortus Conclusus.
Come quello del poemetto didascalico “Il Fiore”. Un riadattamento, in corona di sonetti, del francese Roman de la Rose. Poemetto allegorico, dove la Rosa rappresenta la Donna, e il Giardino il suo corpo, nel quale il trovatore – troviere, visto che siamo in area d’Oil, francese antico – vuole entrare. Per cogliere, appunto, il fiore…
Una dimensione dell’eros che ci appare mille miglia lontana dalla sublimazione dello Stil Novo. Dove il gioco della seduzione, narrato in forma allegorica, evoca il Ludus di Ovidio. Il gioco, l’intrigo, lo scherzo. E il piacere. Roba da Corti d’Amore dove Dame e Cavalieri ascoltavano delle passioni di Tristano, e duellavano con le parole, in una perenne schermaglia che dilatava i tempi del piacere.
Lontana, lontanissima dalle vie della Firenze duecentesca, dalla rarefazione della Donna Angelicata, dall’immagine della Donna mia in San Michele in Orto, dal “Tanto gentile e tanto onesta pare”…
Eppure… Contini, il grande filologo, dice che questo “Fiore” lo dobbiamo al genio, poliedrico e inquieto, dello stesso autore della Vita Nova e della Commedia. E che il Messer Durante che lo firma, altri non è che Dante stesso…
E io credo che Contini avesse ragione. Non per complesse analisi filologiche, ma perché in Dante – uomo e poeta vero, non immaginetta da museo scolastico – coesistono due anime. Ovvero due immagini del Giardino. Quello del furto d’amore e della seduzione. E quello del Paradiso Terrestre.
E due Rose. Quella del Piacere. E Quella della Beatitudine. Due che, però, sono una. La stessa Rosa. La passione, l’eros che sfocia nella trascendenza. Il sangue che si fa luce. Luce rosata.
D’annunzio lo sapeva. Lo sperimentava E lo dimostra nei versi del Poema Paradisiaco. Vertice di una mistica sensuale.
La mente torna al sogno del roseto. A quello dell’Amorosa Visione del Boccaccio. Al Marino di Borgès, che mentre muore, nella sua Napoli, contempla una rosa fiorita sul davanzale.
Alle Donne dipinte da Waterhouse, che rubano, estatiche e sensuali, i profumi della siepe di rose rampicanti…
E ricordo, insieme, il filo di roselline rampicanti che spiccavano sull’intonaco bianco del vecchio Albergo. E giungevano alle finestre con gli scuri ridipinti di un azzurro brillante. E le fantasie, le fantasticherie di quei giorni lontani. Tra letture che, oggi, mi appaiono anche troppo romantiche. E il sorriso di una ragazza, che mi aveva incantato. E fatto sognare, in modo certo confuso… Sognare, forse, un giardino. Per la prima volta. Un giardino che, poi, finisci per cercare lungo tutta la vita. E che, a tratti, sembra profilarsi in un orizzonte remoto…
Ricordi. Memorie. Echi. E analogie. In una sera di Maggio. Quando questi naufragi sembrano particolarmente dolci.