Per quelli della mia generazione, e soprattutto con una certa estrazione diciamo… metapolitica, è una scena fondamentale. Un “cult” si direbbe oggi. Preferisco dire qualcosa che si è inciso profondamente nella memoria. E non solo.
Parlo della partita a scacchi tra il Cavaliere e la Morte. Ne “Il settimo sigillo” di Bergman. Non un semplice film. Un èpos filosofico, piuttosto. Una, geniale, allegoria della condizione umana, puntellata di figure e situazioni dalla possente suggestione. La peste che infuria. La muta che parla solo nel finale. La Danza Macabra…
Ma ciò che resta veramente impresso, è il Cavaliere che gioca a scacchi con la Morte. Uno sfinito, ma non domo, Max von Sydow, e un gelido, ma non privo di atteggiamenti istrionici, Bengt Ekerot.
Su questo sono stati spesi fiumi di inchiostro ed oceani di parole. Perciò… basta. O, visto il tema bergmaniano, De hoc, satıs. Non sono un cinefilo, né tanto meno un critico cinematografico. (In verità non sono niente di specifico). E quello di cui mi è venuto uzzolo di parlare è il Gioco. O meglio la partita che si gioca con la Morte. Quindi, semplicemente, la vita.
Declinata in vari modi nella cinematografia e, prima, nella letteratura. Mi viene in mente, così a caso, il finale di “Brancaleone alle Crociate”. Il duello con la Morte, versione farsesca, e grottesca, dell’archetipo bergmaniano. Resa però indimenticabile da un Vittorio Gassman che sembrava balzare fuori da una giullarata medioevale. Che, per altro, spesso rappresentavano la contesa con la triste Signora… Chissà perché, poi, definita triste… Semmai tristi sono, inevitabilmente, coloro che la incontrano. Ma del suo umore non è dato sapere. Sempre che un qualche umore abbia.
E magari avevano ragione gli Arditi della Grande Guerra, con i loro stornelli, quasi dei ballabili, che dicevano che la Morte “fa la civetta in mezzo alla battaglia. Forza ragazzi, facciamole la corte!” che non sarà certo un gran capolavoro poetico. Ma trasuda voglia di vivere. E trasmette allegria…
Comunque, la partita a scacchi è sempre, in qualche modo, connessa col destino. Rappresenta il Fato, che precede secondo logiche contorte, mai veramente razionali. E su questo James Hillman, il vecchio stregone della psicanalisi post-freudiana, ha scritto un godibilissimo libretto. “La psicologia del giocatore di scacchi”.
Ora, qualcuno dirà che sono in vena macabra. O addirittura depresso e deprimente. Ma, sinceramente, non è così. Quella partita, anzi, mi è sempre apparsa come un segno di vitalità. Di un saper cogliere, e godere, il senso profondo della vita. Perché giocare significa non avere paura. E saper affrontare il Destino, senza ingannare se stessi… Senza fare l’esercizio quotidiano, tanto diffuso e comune, di cercare di diventare sempre più ottusi. E stupidi. Perché si crede, inconsciamente, che solo così si può essere felici… E invece, si rinuncia a vivere, e, alla fine, ci si rende conto dell’errore troppo tardi. Come il Leopardi del “Passero solitario”: ahi volgerommi indietro…
Dunque, potrebbe sembrare che c’entri poco col tema, ma voglio raccontare un piccolo, piccolissimo episodio di alcuni giorni fa.
Mi trovo solo in una piazzetta vicino a casa. È domenica, le sette di mattina. Il deserto. Mi sono seduto su una panchina e sto facendo una telefonata. A chi, non importa. Arriva un vecchio, alquanto malconcio, cammina e, palesemente, respira a fatica. Anche perché ha due, sottolineo due, mascherine sulla bocca. All’aperto. In una città deserta.
Mi vede da lontano. Fa oltre trenta metri sino a me. Mi si para davanti. Alza un dito ammonitore. E, con voce da asmatico:
“Metta la mascherina! Perché si muore!”
Lo guardo, credo, con compartimento. Poi, rispondo
“Guardi, mi spiace dirle che lei, anche con due mascherine, prima o poi morirà lo stesso. Anzi, da come la vedo, temo proprio che non le manchi molto…”
Mi fissa terrorizzato. Poi fugge con tutta la velocità di cui è capace.
Cattivo? No. Certo, stanco di questi, ottusi, zeloti. Però io ho solo ricordato a quell’uomo – o a ciò che ne resta – che lui, la partita, l’ha già persa. Per abbandono. Ed è il modo peggiore di perdere.
Il Cavaliere di Bergman se la gioca fino in fondo. Vive e non ha paura di vivere per quanto intorno a lui infuri la peste, e la vita sembri tremenda e dolorosa.
Ama. E non ha paura di amare, nonostante i capelli ormai argentei. Nonostante l’amore possa sembrare impossibile. Irrealizzabile.
Alla fine… perde. Ma perde davvero? Bergman chiude il film con una danza dei protagonisti. Danza macabra, dice la critica. A me è sempre sembrata una sarabanda pervasa di allegria.
2 commenti
Oggi quell’ IMPOSSIBILE mi ha fatto ricordare lo stralcio di una poesia più lunga(che fosse tale lo seppi soltanto un po’ di tempo dopo dal primo incontro con quei pochi versi dell’ intera poesia).Ho ritrovato adesso un foglietto su cui annotai velocemente quelle parole.
Disordinate pagine, foglietti e taccuini,su cui scrivevo al volo ciò che ascoltavo e che mi sembrava manna, nutrimento che generava altro, in un continuo filo rosso.
E,allora,riporto quei versi, le parole di un poeta a commento di un altro poeta.
–Poesia è l impossibile
reso possibile.
Arpa
che al posto di corde
ha cuori e fiamme.
Poesia è la vita
che percorriamo con ansia
aspettando chi governi
senza meta la nostra
barca.
F.G.Lorca
La morte ci fa apprezzare la vita.