Ivan Bunin, nel 1933, è stato il primo russo a vincere il premio Nobel per la letteratura. Nato nel 1870 da un’antica famiglia nobile, fu costretto dalle ristrettezze economiche ad abbandonare precocemente gli studi. Il che non gli impedì di seguire la sua passione per la scrittura, anche se, per sbarcare il lunario, fu costretto a lavorare per anni come correttore di bozze.
I suoi primi successi letterari risalgono all’inizio del XX secolo, grazie all’aiuto dell’amico Maksim Gor’kij, al quale dedicò il poema Listopad (“La caduta delle foglie”) che ebbe un discreto successo. In seguito viaggiò molto, anche in Italia. Ma la Rivoluzione d’Ottobre lo colse a Mosca, consentendogli di osservare da vicino le vicende legate alla caduta dell’impero zarista e alla presa del potere da parte dei Bolscevichi.
A partire dal 1919 tenne un diario che racchiude le sue impressioni “a caldo” su quanto accadeva in Russia, e in particolare a Mosca, nei mesi che seguirono il trattato di Brest-Litovsk. L’anno successivo, nella speranza di trovare una via di fuga verso l’Europa occidentale, si trasferì ad Odessa. Qui continuò a redigere il suo diario che però andò smarrito quando finalmente riuscì a imbarcarsi per Parigi dove ricostruì i suoi appunti che, nello stesso anno, vennero pubblicati a puntate su una rivista gestita da suoi compatrioti sfuggiti come lui alla rivoluzione. Bisognerà attendere il 1936 perché l’opera venga raccolta in unico volume; e addirittura il mese di aprile di quest’anno per la traduzione nella nostra lingua (Ivan Bunin, “Giorni Maledetti”, Edizioni Voland, €18,00).
Dalle sue note, a volte redatte in modo frettoloso allo scopo di non farsi sorprendere dalle autorità, ma proprio per questo più autentiche e del tutto prive di quell’attenzione alla cura del linguaggio che emerge da tutta la sua produzione letteraria, emerge un crudo resoconto di quanto accadde in Russia in quegl’anni. Naturalmente Bunin è coerentemente un controrivoluzionario. Per lui la rivoluzione rappresenta il crollo di tutti i valori nei quali ha sempre creduto. Tuttavia dalle sue righe traspare una speranza destinata a rimanere delusa. Di conseguenza la sua rivolta nei confronti dei nuovi padroni della sua terra si muove sì sul terreno dell’ideologia, ma anche, se non soprattutto, sul piano estetico e spirituale. Le parole che, più di altre, ricorrono nei suoi appunti sono orrore, rabbia, umiliazione, menzogna, odio; ma anche banalità, falsità, sporcizia. “Ciò che in buona sostanza caratterizza le rivoluzioni – si legge nel testo – è una rabbiosa smania di messinscena, di spettacolo, di artificiosità, di farsa. Si ridesta la scimmia annidata in ogni essere umano”. E ancora: “Giorno e notte viviamo in un’orgia di morte. Tutto in nome di un “radioso futuro” che dovrebbe nascere proprio da queste tenebre”. Ma anche: “I riflessi rossi delle bandiere, disgustosamente afflosciate dalla pioggia, colano sull’asfalto bagnato simili a rivoli di sangue”.
Da queste poche pagine emerge il grido di dolore e di disperazione di un uomo che vede tutto ciò in cui a sempre creduto crollare all’improvviso; vede gli amici più cari, tra i quali l’amato Gor’kij, cambiare bandiera per puro opportunismo; vede la sporcizia e la volgarità dilagare per ogni dove. E il suo grido si innalza verso il cielo: “Oh, mio Dio, in quale epoca mi hai comandato di nascere?”
Insomma: Giorni Maledetti non è una lettura che si consiglierebbe a chi vuole rilassarsi sotto l’ombrellone. Tuttavia le vacanze non dureranno in eterno.