Ecco il racconto dell’avventura di Giovanni Passannante, un contadino molto povero, diventato successivamente cuoco a Salerno ma senza cambiar fortuna. La vicenda narra di come l’uomo attentò la vita del Re Umberto I nel 1878.
Quella di oggi è una vicenda realmente successa che incrocia le mostruosità della storia con gli aspetti più assurdi della politica.
Situazione politico-sociale del tempo
Giovanni Passannante era l’ultimo figlio dopo dieci fratelli. Come tanta gente del suo paese viveva ai limiti della fame e della miseria più nera. Tutto avveniva nell’isolato e triste Comune di Salvia di Lucania, dove civiltà e progresso non si vedevano.
Erano i primi anni del Regno d’Italia, tempo in cui si decantavano i valori del risorgimento. Ma l’indigenza e il bisogno restavano, soprattutto nelle periferie più abbandonate del Sud.
Contemporaneamente, la borghesia degli affaristi e dei politicanti di parte sabauda si arricchiva tra appalti truccati e facili concessioni governative. Il malcontento dei più indigenti portava facilmente la gente nelle file dell’estremismo rivoluzionario.
Giovanni Passannante, infatti, diventò anarchico. Dalle idee mazziniane, Passannante, considera traditi gli ideali risorgimentali con l’instaurazione del nuovo Regno d’Italia. Questo, poiché le precarie condizioni sociali sono rimaste immutate.
L’inizio della storia in giallo di Passannante
Alla morte del padre, nel 1876, Umberto I, accompagnato dalla moglie Margherita e dal figlio, preparò un viaggio nelle maggiori città italiane per potersi mostrare al popolo. Diverse proteste di matrice internazionalista caratterizzarono i giorni precedenti l’arrivo del Re nella città partenopea. Queste, represse dalle autorità.
Passannante venne a conoscenza della visita a Napoli da parte del Re Umberto I. Dunque, il contadino-cuoco di Salvia si recò nell’ex capitale del Regno delle Due Sicilie. Qui, vendette la giacca e con il ricavato comprò un pugnale. Si preparava così, a mettere in atto il suo piano di uccidere il sovrano.
il 17 novembre 1878 la famiglia reale arrivò in visita a Napoli. Qui, venne preparata un’accoglienza sfarzosa, nonostante le polemiche avutesi in consiglio comunale sulle spese elevate per il ricevimento reale.
Nascosto nella folla, Passannante, balzò d’improvviso sulla carrozza reale e sferrò il colpo che avrebbe dovuto cambiare i destini d’Italia. Fortunatamente, o sfortunatamente, riuscì a ferire solo il ministro Crispi, che sedeva accanto al Re. Crispi in qualche modo fece da scudo, salvando la vita a Umberto I. Le autorità arrestarono Passannante e lo condannarono a una lunga e dolorosa detenzione.
Quello attuato da Passanante fu il primo attentato nella storia della dinastia dei Savoia.
Nuovo nome della città
Alla Prefettura di Napoli si faceva festa in onore di Umberto I. Contemporaneamente, nello stesso luogo, il Sindaco di Salvia era stato convocato per essere interrogato. Il povero sindaco, anch’esso di semplice condizione, per l’occasione dovette prendere in affitto un vestito nuovo, per ben figurare davanti al Prefetto.
Fu messo sotto torchio, durante un penoso interrogatorio in cui gli inquisitori insinuavano che tutti gli abitanti di Salvia erano probabilmente anarchici e repubblicani.
Il Sindaco si difese in qualche modo e, tornato al suo Municipio, rese un atto solenne di fedeltà alla Corona facendo votare una nuova denominazione del paese, che ancora oggi – senza senso – si chiama Savoia di Lucania.
I resti della vicenda
La sua prigionia fu spietata e lo condusse alla follia, sollevando un enorme scandalo nell’opinione pubblica. Venne, in seguito, trasferito in manicomio, dove passò il resto della sua vita.
Passannante morì nel 1910 e il suo corpo fu decapitato. La testa, ridotta ad un teschio, fu esaminata da studiosi di antropologia criminale che, in qualche modo, si rifacevano alle lezioni di Cesare Lomboroso.
Questi rinvennero nella struttura facciale del defunto i tratti dell’inferiorità intellettuale e morale del contadino meridionale, ma non quelli della miseria del Sud. Da allora il macabro reperto fu esposto nel Museo Criminologico di Roma, dove si offrì al pubblico la derisione totale fino ai giorni nostri, in attesa dell’eterno riposo.