Sanzioni, che passione. O che ossessione per i filantropi statunitensi e per i loro maggiordomi di casa nostra. Senza più neanche un briciolo di decenza e del senso del ridicolo, a Washington hanno minacciato di sanzionare le banche svizzere – a partire dell’ormai defunto Credit Suisse (oltre a Ubs, ovviamente) – per non aver derubato i correntisti russi che si erano affidati agli istituti di credito elvetici. Poi, attraverso i servitori europei, hanno chiesto sanzioni contro una banca austriaca che osa ancora operare nella Federazione Russa.
Poteva bastare? Certo che no. Ed allora sono arrivate le minacce di sanzioni contro i Paesi dell’Asia Centrale che hanno intensificato i rapporti commerciali con la Russia nonostante gli ordini dei padroni del mondo.
Il problema, per Washington e per i maggiordomi, è che il resto del mondo pare ormai fregarsene degli avvertimenti e delle minacce occidentali. Anche se il sofferente Rampini resta stupito di questo odio per chi è pronto a sacrificare qualsiasi popolazione mondiale pur di esportare la democrazia e il capitalismo.
Ma come sempre accade, i servitori sono sempre in ritardo rispetto alle decisioni del padrone. Così, mentre gli euroimbecilli strillano, gli Usa mandano una missione in Africa per cercare di convincere alcuni Paesi non ad abbandonare i rapporti sempre più stretti con Pechino, ma almeno ad allentarli leggermente, ad essere più prudenti.
D’altronde le difficoltà atlantiste stanno aumentando. Il Brasile ha chiesto agli altri Paesi dei Brics di aprire le porte all’ingresso dell’Argentina. Mentre la Cina è a favore dell’ingresso dell’Iran che si aggiunge alla lista degli altri candidati. Già nella formazione base (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) i Brics rappresentano circa il 40% della popolazione mondiale ed il 26% del PIL complessivo. E l’impatto provocato dall’ingresso dei Paesi che ne hanno fatto richiesta non sarebbe per nulla indolore per le economie degli stati al servizio di Washington.