Il 75% delle persone che vivono nelle democrazie liberali (1,2 miliardi di abitanti) ha un’immagine negativa della Cina e l’87% ha una visione negativa della Russia. Lo riporta Agcnews riprendendo uno studio dell’Università di Cambridge. Dunque la propaganda a senso unico, spacciata per informazione, dei chierici atlantisti ha avuto successo: Pechino e Mosca sono isolate e condannate! Forse non è così. Perché lo studio che, tra i restanti 6,3 miliardi di persone, il 70% ha un’opinione positiva della Cina e il 66% anche della Russia.
Soprattutto Pechino viene vista come leader dei Paesi in via di sviluppo e, per la prima volta, la Cina viene preferita agli Stati Uniti. Quanto a Mosca, ha un apprezzamento record in Asia meridionale (75%) ma è vista con favore dal 68% degli abitanti dell’Africa francofona (un ceffone micidiale a Macron) e dal 62% nel Sud Est Asiatico.
La guerra in Ucraina, e le successive sanzioni imposte dagli Usa e adottate dai maggiordomi europei, ha determinato la fine della globalizzazione come obiettivo generale e ha rilanciato la politica dei blocchi. Sostanzialmente analoghi quanto a consistenza delle popolazioni. Con circa 2,5 miliardi di abitanti nei Paesi al servizio di Washington, 2,3 miliardi vicini a Cina e Russia, e un altro 30% di non allineati che l’India vorrebbe coalizzare.
Ma se la popolazione è numericamente omogenea, non lo è per nulla sotto l’aspetto economico. I Paesi atlantisti hanno un Pil complessivo pari a 70mila miliardi di dollari, il doppio rispetto al gruppo guidato da Pechino e Mosca. Inoltre gli Usa rappresentano meno di un terzo del Pil complessivo degli atlantisti mentre Russia e Cina pesano per 30mila miliardi di dollari su 35mila. Dunque, in teoria, il fronte atlantista avrebbe meno ragioni di risentimento nei confronti di Washington rispetto a un eventuale fastidio rispetto a Mosca e Pechino da parte dei Paesi del blocco anti atlantista schiacciati dai due colossi pigliatutto.
Invece non funziona più così. E l’arroganza statunitense, in questa guerra ucraina ma anche in precedenza, ha rafforzato i legami dei Paesi poveri con Cina e Russia. E la prova di forza di Mosca in Africa ha premiato la Russia ed ha penalizzato la Francia. In ogni caso non funziona più, in questa fase, il prestigio della ricchezza. O meglio, funziona ancora nel mondo atlantista, dove il benessere (comunque calante) spinge le pecore dietro il pastore. Ma l’ostentazione della ricchezza, invece di suscitare desiderio di imitazione, provoca rabbia e risentimento nei Paesi poveri che vedono Mosca e Pechino come le capitali in grado di guidare la riscossa dei pezzenti.
E poi c’è l’India. Che vorrebbe favorire l’aggregazione del restante terzo della popolazione mondiale. Senza velleità di prevaricazione ma assumendosi il ruolo di coordinamento. Puntando, inevitabilmente, non sui Paesi più poveri – che sognano il denaro degli investimenti cinesi – bensì su quelli che hanno già iniziato a valorizzare le rispettive risorse e potenzialità. Però anche per diventare coordinatori occorre prestigio, se non ci sono soldi a sufficienza. E il prestigio, a livello internazionale, si conquista con iniziative, a partire da quelle legate al soft power. Ma su questo, Nuova Delhi è ancora molto in ritardo.