La testa, in terracotta, di una statua Etrusca. Il busto dì una giovane donna. Si trova, se non sbaglio, al Metropolitan dì New York. In piena Etruria, come si può facilmente intendere…
Qualcuno la chiama Rasna. Ma questo non è un nome. È il modo in cui gli Etruschi chiamavano se stessi, secondo Dionisio di Alicarnasso. Il maestro di retorica greca, che visse a Roma in età Augustea. E che, in consonanza con lo Spirito del tempo, aveva una vera e propria passione per le antiquitates. Oggetti e, soprattutto, storie e parole arcaiche.
Rasna, o Rasenna, vorrebbe, probabilmente, dire “il Popolo della città”. Perché furono gli Etruschi per primi a portare nella penisola italica la città. Intesa come città stato, società urbana, organizzata politicamente. Tutti gli altri, Osci, Umbri, Ausoni, gli stessi primi Latini, vivevano in villaggi. Con un’organizzazione ancora tribale.
Comunque, la nostra giovane Rasna è…bella.
Certo, è bella l’opera dei coroplasta. Raffinato. Chiaramente influenzato da scuole ellenistiche. Ma ha un tocco diverso. Non è greco. I greci inseguivano la bellezza ideale. Ben di rado facevano ritratti. Ed erano, comunque, sempre ritratti fortemente idealizzati. Astratti da ogni realtà concreta.
Rasna, invece, è reale. Una bellezza reale. Come quelle che, al tempo, probabilmente potevi incontrare per le vie di Chiusi e di Volterra.
I capelli acconciati corti, sotto al velo. Che tutte le donne d’alto ceto portavano. Segno di distinzione, non di sottomissione. I Romani ereditarono l’uso. E poi i bizantini. I Romani d’oriente. L’Islam arabo imparò da loro….
I tratti del volto delicati. Sembra quasi di poterne intuire la pelle. Bianca, serica. Calda. Il naso dritto. Di rara perfezione. E le labbra carnose. Quasi tumide. Estremamente sensuali. Labbra che contornano una bocca ben disegnata. Chissà se usava un rossetto…. probabile, i cosmetici nascono, per lo meno, nell’antico Egitto. E presso gli Etruschi erano di uso comune. Per le donne come per gli uomini. Però è impossibile dedurne il colore. Forse un rosa carne. Forse un altro. Dovrei andare a rileggere Ovidio. I Medicamina faciei.
È la bocca di chi ama la vita. I piaceri. Che gusta cibi e vini.
È un paradosso che gli Etruschi vengano sempre, nell’immaginario comune, collegati alla morte. Visti come oscuri, cupi. Ossessionati dall’al di là.
Era l’opposto semmai. Gli affreschi delle loro necropoli rappresentano la vita. Il gusto per la vita in tutte le sue sfaccettature. L’eros e il cibo. L’amore e il piacere di bere e cenare fra amici. Il sesso più sfrenato ed il godimento della natura…
Amavano tanto la vita, da cercare di portarla oltre le soglie della morte.
Ma quello che di Rasna colpisce davvero sono gli occhi.
Grandi, con le pupille che sembrano dilatate. E splendenti. Occhi che ti affascinano. Che ti incantano.
Li immagino con una sfumatura di verde. Come l’acqua di una pozza. Uno stagno. Puro e oscuro allo stesso tempo.
Se fissi quegli occhi, ti senti sprofondare. E trafiggere.
“Voi che per gli occhi mi passaste il core…”
In fondo, Cavalcanti era toscano. E Vanna, la Donna che amava, poteva essere di sangue etrusco. Avere occhi come questi. Come quelli di Rasna.
Lo Stilnovo di Cavalcanti è sempre sospeso tra la spiritualità e i sensi. Il desiderio diviene forza che ti porta a trascendere i limiti della Natura. Ma anche ti ferisce. Ti tormenta. Uccide una parte del tuo cuore. E ti fa provare una sorta di morte. Un naufragio dell’essere.
Divago. Lo sguardo di Rasna viene da lontano. Dall’abisso di secoli, nel quale storia e leggenda si confondono. Viene da lontano. E mi trascina lontano.
Continuo a fissarla.
Doveva essere proprio… bellissima