Paolo Verri, uno dei protagonisti del Sottosistema Torino, in una intervista al Corriere della Sera spiega che il rilancio del capoluogo piemontese non può prescindere da un ampliamento della città. Poco meno di 900mila persone sono poche, a suo avviso. Dunque bisogna costruire una Gran Torino, non nel senso della vettura che la Ford dedicò alla capitale dell’auto (una dedica mai compiuta dalla Fiat) ma di un’area metropolitana che racchiuda i centri limitrofi.

Evitando l’assurdità dell’attuale Città Metropolitana che comprende l’intera provincia con problemi estremamente diversi tra i borghi alpini, le cittadine di pianura e la grande città. Dunque una Gran Torino nella quale gli abitanti di Settimo, di Rivoli, di Moncalieri rinunciano a parte delle loro peculiarità per far parte di una realtà più vasta e complessa. Con i rispettivi sindaci che, insieme al primo cittadino di Torino, andrebbero a formare la cabina di regia della nuova struttura.
Al di là delle difficoltà tecniche, non è che i modelli simili offrano risultati meravigliosi. I municipi di Roma non sono un esempio di efficienza, di sviluppo, di buona gestione. Le banlieues parigine sono il simbolo internazionale dei problemi, del caos, del peggioramento della qualità della vita.
Verri, che è uno dei leader del guazzabuglio civico di sinistra, ha il timore che Torino possa diventare una città per vecchi che rimpiangono il passato invece di trasformarsi in una città di giovani proiettati nel futuro. E le dimensioni, per lui, sono importanti, al di là delle facili battute da caserma di quando tutti i ragazzi passavano per le caserme.
Una visione che si scontra, legittimamente, con la tendenza emersa nei mesi scorsi. Quando è cresciuta la voglia di fuggire dalle grandi città, invivibili, per cercare di recuperare una dimensione umana in campagna, al mare, in montagna, in uno dei tantissimi borghi spopolati sparsi in tutta Italia. E la voglia di andarsene era maggiore – anche per evidenti ragioni economiche – tra chi dovrebbe rappresentare l’élite urbana. Professionisti, imprenditori, intellettuali. Ossia il nucleo centrale del rilancio sognato da Verri.
Perché saranno importanti le dimensioni, ma forse è ancora più importante sapere cosa fare in una Gran Torino. Chi ama la qualità della vita difficilmente si entusiasma a percorrere corso Giulio Cesare, soprattutto quando cala la sera. Chi ama il bello non lo ritrova nei cassonetti della raccolta porta a porta, nei grigi palazzi sovietici all’ingresso della città. Chi ama la cultura non resta facilmente affascinato dalle proposte politicamente corrette ma che sono un esempio di vuoto cosmico trasformato dai media in appuntamento imperdibile.

E chi ha scelto la vivibilità della cintura torinese forse non ha voglia di essere proiettato nel caos metropolitano, per di più in una posizione decentrata.
Per il momento Torino e le altre grandi città si sono salvate solo grazie all’incapacità ed all’inadeguatezza degli amministratori dei piccoli centri, non in grado di favorire l’arrivo di nuovi abitanti. Ma è solo questione di tempo. Se le offerte delle città continueranno ad essere quelle di oggi, la fuga delle élites sarà inevitabile.