Hoka Hey! Il grido di guerra degli Oglala, una delle stirpi dei Lakota e Dakota. Che noi si insiste a chiamare Sioux, con l’appellativo spregiativo usato dai loro nemici etnici.
Il grido di guerra di Cavallo Pazzo. Il leggendario capo guerriero che, a Little Big Horn, guidò la carica contro le giubbe blu del VII Cavalleria. Comandato da quel macellaio di Custer. Che non era generale, ma solo colonnello, per altro.
Hoka Hey! Viene spesso tradotto con: oggi è un buon giorno per morire.
Non so se sia una traduzione esatta. O una sorta di interpretazione. E, sinceramente, non me ne curo. Quello che mi colpisce è, piuttosto, l’animus, ovvero l’atteggiamento interiore che sta dietro ad un grido di battaglia come questo.
I cavalieri delle grandi pianure di quella che, i conquistatori, hanno poi chiamato America, non andavano alla carica invocando il nome di un sovrano. Erano uomini liberi. E i loro capi erano tali per la riconosciuta saggezza, e per il valore.
Non invocavano neppure un qualche Dio. Le divinità, o meglio gli Spiriti in cui credevano erano legati alla vita, alla caccia. Avevano strettamente a che fare con l’iniziazione del giovane. Quando entrava nell’età adulta, e diveniva un guerriero. Chi abbia avuto la fortuna di vedere “Un uomo chiamato cavallo” con uno straordinario Richard Harris, se ne può essere fatto un’idea. Resta, a distanza di decenni, il miglior film mai realizzato sulla visione dei, cosiddetti, indiani. Che, oggi, il politically correct vuole che si chiamino “nativi americani”. Espressione anche questa insensata. E, a ben vedere, espressione di quel tracotante senso di superiorità dell’uomo bianco, che gli alfieri della nuova correttezza politica dicono, solo a parole, di voler combattere… Perché quelle nazioni vivevano in terre cui davano molti nomi. Non certamente quello derivato dal nostro Amerigo Vespucci…
Hoka Hey. È un buon giorno per morire. Sembra non un grido di guerra, piuttosto una dichiarazione d’amore. Di amore per il proprio destino. Quell’Amor Fati che serpeggia in molte culture. E le innerva. La filosofia stoica, Seneca, lo tradussero in dottrina. Ma altri lo seppero vivere senza bisogno di teorie.
Come i Samurai. Hagakure, una sorta di breviario del samurai scritto nel periodo Tokugawa, recita, più o meno testualmente: se ti trovi incerto tra vivere e morire, scegli la morte. È più onorevole.
Non si tratta di un, nichilistico, desiderio di auto – distruzione. Piuttosto della coscienza che chi non è pronto ad accettare, con dignità, la morte, non è neppure capace di vivere da uomo. Lo spiega bene Mishima, nel suo commento proprio ad Hagakure. Fondamentale per comprendere tutta l’opera del più grande scrittore giapponese contemporaneo. Ed anche il suo destino.
E qualcosa di simile mi sembra ancora risuonare nel grido di battaglia del Tercios. “Viva la Muerte. Abajo la intelligencia”…La legione straniera spagnola. Le famose, e temute, “Banderas”. Eredi delle fanterie che dominarono la scena europea dal ‘500 al’ 600. E che conobbero il loro crepuscolo a Rocroi. Quando, a battaglia ormai perduta, il comandante francese, il Gran Condè, offrì loro la resa con l’onore delle armi. Ma il comandante dei tercios rispose: Ringazio Vostra Altezza. Ma non possiamo arrenderci. Siamo la fanteria spagnola.
Fu il crepuscolo. Ma un crepuscolo luminoso.
Ascoltate il coro dei militi del Tercios che intona “El novio de la Muerte” alla processione del Venerdì Santo. E capirete.
Unamuno uno dei pensatori che più amo, detestava questo grido. Lo definisce: necrofilo. Ma non è così. A me sembra, piuttosto, un inno alla vita. Che di fronte alle grandi prove, non può essere limitata, frenata, di fatto uccisa dalla ragione. Da una intelligenza algida, che tutto pesa misura come un usuraio al Banco dei Pegni. E che tutto, inevitabilmente, rende meschino.
Potrei continuare. I nostri arditi della Grande Guerra. Con i loro stornelli allegri e pieni di voglia di vivere. Dove, pure, parlano di corteggiare la Signora Morte, che fa la civetta in mezzo alla battaglia.
E poi i Legionari Fiumani. I motti creati dal genio creativo per antonomasia. Gabriele D’annunzio. Il Despota della Reggenza fiumana. Ne conobbi uno di quei ragazzi allegri e spensierati che seguirono il Poeta in quell’impresa disperata. Aveva più di ottant’anni. Ma quando ne parlava, ancora lo sguardo gli brillava di fierezza…
E poi…ma è meglio che qui mi fermi. Altrimenti c’è il rischio che qualcuno sospetti ch’io sia un bieco reazionario. Peggio, un fascista.
E così mi limito a tornare col pensiero a Tashunka Uitko, Cavallo Pazzo ( in realtà la traduzione sarebbe: è pazzo il suo cavallo).
Dicono che il suo spirito aleggi ancora sulle grandi pianure. E che, nel vento, talvolta risuoni il suo grido di battaglia.
Hoka Hey!