A me, sinceramente, Andy Warhol non è mai stato simpatico. La sua, cosiddetta, Pop Art mi ha sempre, per usare un eufemismo, lasciato molto perplesso. L’ho vista, e continuo in buona sostanza a vederla, come il punto d’arrivo di un processo di mercificazione dell’arte e della cultura certo già in atto da parecchio tempo, ma che proprio con la Pop Art perde completamente qualsiasi altro valore che non sia quello strettamente economico. Diviene, in sostanza, solo merce, depauperata di qualsiasi altra funzione. E per di più una merce astratta. Priva di funzione pratica. E, quindi, perfetta per un mondo economico sempre più astrattamente speculativo.
Certo, la colpa mica era di Warhol. Anzi, lui, se non altro, ha avuto il merito di dire onestamente ciò che gli altri sottacevano. Di proclamare, una volta per tutte, che “il Re è nudo”. E che in una società governata dall’Usura “non vi è chiesa con affreschi /di Paradiso…” come scrive Pound nel Cantos XLV…

Comunque, le sue opere, cosiddette, artistiche, che mandano in visibilio critici e intellettuali, a me non sono mai piaciute… Che ci volete fare? Sono un vecchio dinosauro che continua a considerare la Venere del Botticelli ideale di perfezione. E non riesce ad apprezzare le fotocopie colorate del volto di Marylin Monroe…
Però Warhol intelligente era intelligente. Ed aveva ben compreso i suoi polli. Ovvero la società contemporanea e gli uomini che la compongono. Il che, per inciso ha permesso al figlio di modesti immigrati lucheni – una ristretta minoranza carpatica, di lingua affine al ruteno – di diventare il più osannato guru intellettuale dell’ultimo scorcio del ‘900. E sicuramente uno dei meglio retribuiti. Il che, secondo me, gli faceva fare delle grasse risate quando nessuno poteva vederlo. Anche perché il nostro Andy era personaggio complesso. In segreto cattolico, di rito orientale, praticante. E tormentato…
Comunque, c’è una sua frase famosissima che, oggi, viene citata continuamente. A proposito e a sproposito. Alludo a quella secondo la quale, nel prossimo futuro, tutti, proprio tutti, avrebbero avuto il loro quarto d’ora di celebrità.
Frase che, inevitabilmente, ci appare oggi profetica. Una profezia perfettamente realizzata. Anzi, oggi, tra web e social, un quarto d’ora appare già una pretesa eccessiva. Pochi minuti, un paio, bastano a dare a chiunque l’ebrezza della celebrità. E a conferire un qualche senso al suo esistere…
E questo si realizza nei modi e nelle forme più diverse. Sproloqui sui più diversi temi. Filmati più o meno abboracciati, foto del pranzo del giorno (come se agli altri potesse importare qualcosa del tuo indulgere alla amatriciana…)… Per non parlare delle panterone da İstagram, un trionfo di reggicalze, stivali, tacchi vertiginosi, seni nudi ti vedo/non ti vedo , a vellicare il voyerismo onanistico dei probi sostenitori del sesso virtuale, sicuro e anti Covid, come raccomandato dai nuovi soloni della virologia…
Tutto per una manciata di like, che non si negano a nessuno. E che ti fanno sentire, per un attimo, importante. Al centro dell’attenzione. Famoso.

In realtà è la nuova, estrema declinazione della disperata solitudine dell’uomo contemporaneo. Che ormai non gioca neppure più a bowling da solo, come nel famoso saggio di Robert Putnam. Ma si filma, fotografa, pubblica in totale solitudine. Inseguendo l’illusione della fama. Che mai è sembrata così facile da raggiungere…
Intendiamoci. Nessuna volontà di demonizzare lo strumento in sé e per sé. Il web, i social sono strumenti. E ciò che conta è il rapporto che con loro insaturi. Ovvero se li utilizzi, o se sono loro ad usare te. In sostanza il dilemma posto già da Pirandello con Serafino Gubbio e la sua cinepresa…
Perché nella tecnica si cela un potere spaventoso. Dominarlo è arduo e, certo, ti apre vasti orizzonti. Ma per dominarlo non si può essere asserviti ad un basso, infimo, senso di sé. Altrimenti di quel potere, per molti versi oscuro, divieni schiavo. E lo schiavo altro non è che merce. Venduta ormai a tanto al chilo sul mercato globale e virtuale.
Ed anche a costo praticamente zero. Perché pagato con una manciata di illusoria notorietà…
Warhol aveva avuto l’intuizione giusta dopo tutto. Ma non ha saputo, o voluto portarla sino in fondo. Perché se ogni forma di arte ormai altro non è che merce, ed è merce il lavoro umano, allora l’uomo stesso è merce. Lo è la sua dignità. Per non parlare della sua anima… Merce a bassissimo costo. Commerciabile e sacrificabile.