Nell’immaginario collettivo il riso è “il” cibo cinese come la mozzarella è campana e la fontina è valdostana. Ed andare a vendere il riso in Cina pare un’impresa come vendere i gelati al Polo Nord. Eppure, d’ora in poi, a Pechino e dintorni potranno gustare il riso italiano. Dopo un lungo negoziato le autorità asiatiche hanno dato il via libera alle importazioni del prodotto italiano che, ovviamente, è diverso da quello locale.
Una sfida non solo sulla qualità della produzione, ma anche e soprattutto sul modo di cucinare. Si esportano i chicchi ma anche lo stile italiano, la cultura che c’è dietro ogni piatto. Per un’Italia che non può certo illudersi di avere un ruolo culturale globale con personaggi come Alessandro Gassman o Michela Murgia, la cucina resta uno dei pochi fattori di successo di soft power. Certo, ci sono anche Riccardo Muti ed i grandi musei di arte antica e rinascimentale, ma la tv pubblica investe di più per Littizzetto e Fazio.

Dunque possiamo sperare di conquistare i cinesi con il risotto alla milanese o con i risi e bisi, con i risotti alla zucca o alla salsiccia. Senza dimenticare minestre e dolci a base di riso Balilla (sempre che qualche sezione dell’Anpi non ne vieti la commercializzazione).
Una boccata d’ossigeno per i produttori di Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Sardegna (ma ci sono piccole realtà anche in Toscana e Calabria).
“Siamo orgogliosi – afferma Paolo Carrà, presidente dell’Ente nazionale Risi – del risultato raggiunto, che permetterà al nostro riso italiano di giungere su un mercato in cui l’agroalimentare made in Italy sta registrando notevole interesse”.