Wittgenstein diceva che i limiti del mio linguaggio, sono i limiti del mondo. Del mio mondo, ovviamente. Di quello che riesco a concepire e, pertanto, diviene per me la realtà. Unica e sola.
Si tratta di una estensione del principio hegheliano: chi possiede una parola, possiede anche il concetto corrispondente. Chi non ha la parola, non ha neppure il concetto.
Non si tratta di una, mera, astrazione filosofica. Da vecchio insegnante ho sempre guardato con scetticismo, ed ironia, lo studente che biascicava scuse durante l’interrogazione. E che mi diceva: io le cose le so, ma non trovo le parole. Se non le trovi, mio caro, è perché non le sai. E non valgono le scuse.
Wittgenstein, però, va oltre Hegel. Perché la sua concezione dei limiti del linguaggio rende decisamente più soggettiva la visione del mondo. E, di fatto, mette in discussione l’esistenza di un’unica realtà. Oggettiva e massiva. Uguale e uniforme per tutti.
Intendiamoci… io non sto cercando di dare una qualche, più o meno nuova, interpretazione del “Tractatus”. Non sono un ermeneuta, né, tantomeno, un filosofo. Mi limito a prendere spunto. E a fare qualche… digressione sul tema. Punto. Senza troppe pretese.
E, appunto, divagando, mi viene in mente che noi viviamo, essenzialmente di parole.
Perché sono le parole che definiscono, e in un certo senso delimitano ogni cosa intorno a noi. E ogni gesto che noi compiamo. Definiscono sentimenti, speranze, illusioni… amori ed odii. Paure.
E, quindi, i confini del nostro mondo sono, inevitabilmente, soggettivi. Per fare un esempio, diciamo così, letterario (in fondo resto sempre un vecchio prof.) Dante chiama Amore ciò che prova per Beatrice. Ma anche Sacher Masoch definisce Amore quella che, agli occhi dei più, appare come una… perversione.
Nessuna intenzione di infilarmi in una spinosa questione come quella che riguarda gli abissi del sentimento (e della psiche ) umana. Solo vorrei sottolineare che noi abbiamo un numero tutto sommato limitato di parole. Con cui, certo, cerchiamo di descrivere ciò che ci circonda… ma che, soprattutto, usiamo per spiegare noi stessi.
Ma non agli altri… o, per lo meno, questa è solo apparenza. Un velo illusorio..
Cerchiamo di spiegare chi siamo, cosa siamo, a… noi stessi. Perché, alla fine, è il dialogo interiore con se stessi che definisce il nostro mondo.
Il dialogo interiore, il parlare tra sé e sé, è incessante. Per lo meno nella coscienza diurna. Di notte, nel sonno, forse è diverso… ci sono i sogni… c’è altro… probabilmente. Ma da svegli dialoghiamo di continuo con noi stessi. Ed è questo dialogo che genera il nostro mondo. E, contemporaneamente, lo limita. Il teatro dell’assurdo, Beckett e ancora di più Jonesco, ha messo in luce proprio questo nostro essere imprigionati in una gabbia di parole. Che noi stessi forgiamo di continuo.
E qui, però, mi sorge una perplessità. Perché se è vero che, come dice Wittgenstein, i limiti del nostro mondo sono quelli del linguaggio, per quanto noi si possa arricchire il nostro… lessico, restiamo pur sempre… prigionieri. La gabbia si allarga, certo. Diventa più ariosa e spaziosa. Ma resta pur sempre una gabbia. Una prigione.
Che ti dà solo l’illusione della libertà.
E forse, allora, solo andando oltre il linguaggio ci sarebbe possibile trovare la… realtà. Cosa essa sia, o possa essere, difficile dirlo. Mi balocco talvolta con il mondo delle idee platonico… altre con il Nirvana buddhista… ma non ho una risposta chiara. I limiti del mio linguaggio non me la concedono.