Ormai San Michele è vicino. Ed è quella, per me, la vera data d’inizio dell’autunno. Suggestione del passato, ed anche ricordi personali.
Pensateci bene. Il Solstizio d’inverno, da un punto di vista astronomico, precede di alcuni giorni il Natale. Ma è il Natale che abbiamo sempre festeggiato, ben prima dell’avvento del Cristianesimo.. A Roma, Aureliano aveva posto al 25 la Festa del Sol Invictus. Anche perché è solo dopo qualche giorno che si comincia a percepire l’allungarsi delle ore di luce. Così, all’Equinozio d’autunno, è solo verso il 29 settembre che ti accorgi sensibilmente di come le tenebre stiano prevalendo. E il 29 è, appunto, San Michele.
Per altro San Michele sarebbe anche il patrono della mia città. Dico sarebbe perché Mestre, dai tempi di Volpi di Misurata, non è più una città. Derubricata a quartiere de Venezia. Terraferma. O, come dicono i Veneziani veri, campagna. Il conte Volpi, che era il ministro dell’industria di Mussolini, voleva creare quella zona industriale che prese il nome di Marghera. Ovvero “ghera il mar”, c’era il mare, perché per costruirla interrarono un’ampia porzione di laguna. Però serviva anche una zona residenziale per il, prevedibile, sviluppo demografico. E quindi prese l’antico borgo di Mestre, gli tolse ogni autonomia, e lo sottomise a Venezia come quartiere. Alla faccia di una plurisecolare tradizione. Perché Mestre era altra cosa, centro per suo conto da tempi antichissimi. Fondata su quelli che erano gli accampamenti invernali delle legioni di Cesare. O per lo meno, così si racconta…
Comunque, anche se, ufficialmente, il patrono era diventato San Marco, noi mestrini abbiamo continuato a riconoscerci in San Michele. Anche perché venivano le bancarelle in piazza. E si allestiva la Fiera.
Niente di grandioso, per carità. Niente di paragonabile alle grandi fiere agricole sparse un po’ per tutto l’entroterra Veneto. Mestre era da troppo tempo divenuta l’appendice dormitorio della Zona Industriale, per mantenere quelle tradizioni che pure nel passato le erano appartenute. Però la Fiera di San Michele era carina. Cosa soprattutto per bambini. E per quegli adulti che amavano ricordare di esserlo stati.
Qualche giostra. Roba da poco, però. Cavallucci… Autoscontri,… cosette così… sparse per lo più in periferia.
Quello che contava davvero erano le bancarelle. Per lo più di carattere alimentare. Dolcetti, i primi mandorlati di stagione. Zucchero filato, al tempo rigorosamente bianco, ché ancora non erano in uso i coloranti. E le ciambelle fritte ovviamente. Ma per me la memoria di San Michele si lega principalmente ad un sapore. Quello delle mandorle caramellate con lo zucchero e dei croccanti. Che venivano preparati davanti ai tuoi occhi in capaci pentoloni metallici, con uomini in canottiera che mescolavan senza posa, incuranti del calore sprigionato dal fuoco. E poi gettati su delle spianatoie e tagliati a tranci mentre ancora si stavano raffreddando. Poi venduti ancora tiepidi, in sacchettini di carta trasparente.
Mi sembravano una squisitezza. L’amarotico della mandorla si sposava perfettamente con il caramello, contrastandone la dolcezza eccessiva. Certo, allora i denti erano buoni. E potevano rompere anche i gusci delle noci…
Comunque, a ripensarci, per noi bambini di allora, San Michele era gran festa soprattutto perché apriva la lunga fila di giorni e altre feste che ci avrebbero portati dritti dritti al Natale.
Certo, era imminente il rientro a scuola, che allora cominciava subito dopo, il primo di ottobre. E ci si lasciava definitivamente alle spalle l’estate. E le vacanze. Tuttavia l’Autunno ci appariva costellato, o meglio scandito da giorni straordinari. Magici. Sarebbero arrivati i Morti – allora Halloween manco sapevamo cosa fosse – con le fave dolci di pasta di mandorle. E subito appresso San Martino, col dolce di pasta frolla a forma di cavaliere, decorato di confetti e zuccheri colorati. E poi ancora la Madonna della Salute. Festa veneziana, certo, che ricordava la fine della grande Peste. Ma anche da noi c’era una chiesa intitolata a Colei che sconfisse il morbo. E vi si andava a portare un cero. E fuori di nuovo bancarelle. Che vendevano oggettini a carattere religioso, statuine del presepe, decorazioni per il prossimo Natale. E l’immancabile mandorlato di Cologna Veneta. Meraviglioso, anche se duro come il marmo. Roba da lasciarci la dentatura.
Di lì poi si arrivava a Santa Lucia. E come in un balzo si era già alla Vigilia. E alle dodici notti sino all’Epifania. Che chiudeva la stagione più densa di fascino e magia, portando via tutte le Feste. E costringendoci e tornare in quello che la Chiesa continua a chiamare il “tempo ordinario”. Senza, per altro, ormai più ricordarne il senso.
Perché il Natale è la Festa della Luce. Comunque la si pensi e qualunque fede si abbia. O non si abbia. E questo lo sanno e riconoscono un poco tutti. Ma senza San Michele il Natale e tutte le altre feste della luce avrebbero un senso incompiuto. E forse neppure esisterebbero.
L’Arcangelo – ma se a qualcuno dà fastidio, lo chiami pure Marduk come a Babilonia, o Apollo come facevano i greci – irrompe sulla scena subito dopo l’equinozio. Quando il mondo precipita, giorno dopo giorno, sempre più nella tenebra. Che si dilata nello spazio e nel tempo. Divorando quanto più possibile le ore di luce.
E Michele, con la spada sguainata, combatte Satana /Lucifero. Il portatore della falsa luce. E impedisce che renda totalmente oscuro il mondo.
Tutte le feste d’autunno simboleggiano la lotta della luce contro la tenebra. Per impedire il trionfo di questa. E per giungere al Solstizio invernale. Alla rinascita del sole. Alla sua vittoria finale che si perpetua, anno dopo anno, nei fenomeni della natura.
Ed è Michael che guida la battaglia per sconfiggere il Drago. Il grande Serpente. Lui che deve reggere il primo assalto. Il più spietato e minaccioso.
Miti antichi che ritornano. Percepiti nella natura che muta con l’Autunno. Nei suoi colori e profumi. Nei suoi sapori.
Per me, per la mia memoria, nel sapore indimenticabile di quei croccanti.