Peter Sagan guadagna 5 milioni di euro all’anno, Froome poco meno. Gli italiani Aru e Nibali oltre 2 milioni ciascuno. I guadagni degli altri sono inferiori ma, in ogni caso, il ciclismo non è più lo sport di poveri ragazzi che, terminata la carriera, devono sperare in un lavoro da garzone in una panetteria. Eppure questi campioni, campionicini, aspiranti campioni e truppa di complemento hanno imposto al Giro d’Italia di ridurre della metà una tappa che consideravano troppo lunga, soprattutto perché da affrontare con la pioggia.
Beh, certo, visti i lauti stipendi avrebbero potuto affrontarla a bordo di una Ferrari, o almeno di una Porsche. Anche se i più pagati hanno disertato il Giro, ma ormai è un’abitudine.
Eppure, nei bar e nei piccoli negozi di provincia campeggiano ancora le foto di Coppi e Bartali, capaci di affrontare senza piagnistei il maltempo anche su strade bianche. Non avevano il terrore del fango, del freddo. Ed anche in tempi più recenti il Giro era transitato in alta quota tra cumuli di neve a bordo strada. E gli atleti guadagnavano meno dei divi attuali che pretendono di essere serviti e riveriti, che si lamentano del cibo e delle trasferte.
Un Giro già in tono minore per terrore da Covid, che ha ridotto a poca cosa la tappa clou per le limitazioni imposte dal governo francese. Ma che, con i piagnistei dei corridori ha inferto un colpo durissimo alla credibilità di questo sport. Ed ora bisognerà vedere se, di fronte al disgusto degli appassionati, gli sponsor continueranno a versare cifre astronomiche per i piangina. Perché nessuno è obbligato a prender freddo gratis, ma a colpi di milioni di euro qualche sacrificio si dovrebbe accettare.