Nel 1965, all’età di soli 26 anni, il giovane Marco Bellocchio fa ritorno in Italia dopo un periodo passato a Londra all’Università di Cinema. In particolare torna nella terra che gli ha conferito i natali, l’Emilia Romagna, la città di Bobbio. È proprio qui che realizza il suo esordio alla regia “I pugni In tasca”, che provoca sin da subito una grande scossa nell’opinione pubblica.
“Questa casa non è mai stata così viva come per un funerale”
Nonostante la giovane età, Bellocchio confeziona agli occhi del grande pubblico uno degli esordi più fulminanti della storia del cinema italiano e non. Al punto che questa pellicola rimane tuttora il suo progetto migliore, di certo non un riconoscimento da poco vista la carriera che ha avuto il regista.
Il tema centrale del film è quello della Famiglia, ed è proprio attorno ad una famiglia che gravita l’intera pellicola. Una famiglia però alquanto ambigua. Ogni membro del nucleo familiare, eccettuato il figlio maggiore Augusto sul quale grava l’onere di mantenere la madre e i fratelli, presenta delle infermità o patologie; la madre è cieca, i tre figli minori, Alessandro, Giulia e Leone, sono affetti probabilmente da qualche forma di autismo.
Proprio attorno alla precarietà psichica del giovane Alessandro (Lou Castel) ruota l’intera vicenda. Nel tentativo di racimolare del denaro per farsi strada nella vita borghese, che tanto agogna, ma dalla quale è sottratto, architetta un piano scellerato. Quello di uccidere i membri della sua famiglia. In quanto spettatori siamo resi partecipi della distorsione morale di Alessandro. Ciò che tutti consideriamo immorale e abominevole, viene da lui stimato mezzo legittimo per acquisire i soldi precedentemente impiegati per il mantenimento, e al contempo fare un favore al fratello maggiore che può finalmente sposarsi, libero com’è dalle costrizioni economiche.
Punto cardine della pellicola è l’interpretazione di Lou Castel, chiamato a rappresentare l’insana follia del protagonista, attraverso continui sbalzi umorali e comportamenti sociopatici. Alessandro è un coacervo di emozioni e impulsi paralleli, è animato da sentimenti d’ira, di angoscia sociale, dell’amore incestuoso nei confronti della sorella Giulia. L’espressività come la gestualità è centrale in questa pellicola come nella simbologia cinematografica e teatrale. Il teatro cinese ne è uno degli esempi più lampanti, come lo sono anche le opere teatrali di Bertolt Brecht, che ne sono molto influenzate.
Gli improvvisi movimenti del corpo, i repentini spostamenti delle braccia, una rosa di gesti atti a catturare l’attenzione dello spettatore, a rompere l’intreccio e andamento narrativo in maniera improvvisa e sottolineare la frammentarietà della psiche di Alessandro, che alterna momenti di calcolatrice razionalità, a momenti di pazzia incontrollabile. Memorabile in questo senso la drammatica scena conclusiva.
Per capire la decisione di Bellocchio di girare un film di questo tipo, è necessario avere ben chiaro il periodo storico-culturale da cui è partorito. Erano gli anni 60, gli anni del progressismo, della ribellione, che culmineranno poi nel ‘68, tre anni dopo l’uscita del film. Erano gli anni del Pasolini più politico. Non è un caso che Pasolini stesso scriverà una lettera a Bellocchio riguardante il film in questione; nel 61 era uscito Accattone, nel 68 uscirà Teorema, un altro film dove si parla di una famiglia. A differenza dei Pugni In Tasca però, in Teorema lo smembramento del nucleo familiare proviene da un agente esterno, l’arrivo di un giovane misterioso, e non da uno interno.
All’inizio del decennio era stato pubblicato un libro fondamentale per comprendere questo film, ovvero la Noia di Moravia. Come nel ben più vetusto, e inflazionato, Gli Indifferenti, Moravia racconta con la sua scrittura pungente il decadimento, il tramonto dell’ideale borghese di famiglia, che comincia a creparsi da tutti i lati e si approssima allo sfacelo, a causa di gelosie e adulteri. Non è un caso che tutti questi autori si conoscessero personalmente (ricordiamo Moravia nei Comizi d’amore) e che condividessero idee da sviluppare nelle proprie opere.