1 – Gianni Caccia, Ricerca, puntoacapo, Pasturana 2018; 2 – Gianni Caccia, Triodos, puntoacapo, Pasturana 2021.
Due libri di racconti, equamente ripartiti: tre per volume. Il primo racconto, dal significativo titolo di “Palintonia”, se pur tematicamente accomunabile agli altri, in quanto la “ricerca” è il filo conduttore che tutti li anima, si distingue perché il protagonista, Giovanni, non è lo stesso che ritroviamo in quelli successivi, dove sarà un docente di lettere classiche, Konrad, di ascendenze austriache, coadiuvato da altri personaggi, due dei quali ricorrenti, a condurre, per così dire, le danze, dando avvio a una sorta di saga. In ogni caso, le coordinate spaziali entro cui si susseguono le vicende narrate, con rare eccezioni, sono sempre le stesse: siamo nell’Oltregiogo, in quell’angolo del Piemonte che da Novi Ligure e dalla Val Lemme si protende verso la Liguria, ma s’incontra pure, a nord-est, con la Lombardia e con l’Emilia.
Un’area di confine, dunque, che tuttavia non è solo uno sfondo geografico o una cornice ambientale. Si avverte sùbito, infatti, che per l’Autore – e, di riflesso, per i suoi protagonisti – questi sono luoghi dell’anima, il suo mondo, la “matria” da cui, come Anteo, egli trae la sua energia vitale. Ed anche la sua ispirazione. Da essa proviene l’intonazione, musicale e atmosferica ad un tempo, che spesso, capitolo per capitolo, apre ed accompagna la narrazione, assecondandone con discrezione le cadenze e improntando a volte l’umore stesso dei personaggi. Il paesaggio diventa metafora e specchio di stati d’animo, talora acquista valenze simboliche e perfino connotazioni metafisiche, soprattutto nella contrapposizione tra “basso” e “alto”, tra pianura e montagna.
I due estremi, come spesso avviene, si rivelano in realtà complementari, si integrano, si presuppongono a vicenda: da un lato il luogo della vita ordinaria, dei commerci quotidiani, del normale tran-tran lavorativo; dall’altro lo spazio dell’evasione, delle escursioni, dell’avventura. Una duplicità, questa, che risponde perfettamente alla natura irrequieta di Konrad, un «letterato amante dei misteri», fedele al logos, alla ragione, e nondimeno affascinato da quanto le sfugge. Abbiamo parlato poc’anzi di un’area di confine; ebbene, il nostro eroe è appunto attirato da quella zona (grigia) di confine che separa la luce dall’ombra, il certo dall’incerto, il logos dal mistero. Di qui la sua perenne insoddisfazione, il suo desiderio di «un altrove» che è anzitutto «un oltre»; di qui il suo «non essere mai di un luogo». «La mia Heimat – confesserà lui stesso – è questo luogo che non è un luogo, tra un paese che si specchia in un torrente di poca acqua terrosa [il Lemme] e una montagna dove i confini di province e regioni si confondono e non sai più dove sei di preciso».
Così dicendo, Konrad non parla solo di sé, ma della condizione umana in generale: condizione di cui pochi sono consapevoli, anche perché la maggior parte degli uomini si pasce di succedanei consolatori. In questo egli rispecchia le convinzioni dell’Autore, come lui ammaestrato dai classici cui deve la sua saggezza di scettico mai pago, che non ammette certezze se non quella di «sospendere il giudizio», ergendo il dubbio a sua metodica insegna. «Que sais-je?» si chiedeva Montaigne e coerentemente concludeva: «Je m’abstiens». Non diversamente, sulla scia di Sesto Empirico e di Luciano di Samosata, ragiona Konrad. Ne deriva che la «sospensione» – del giudizio, ma anche del tempo – finisce per essere la sua suprema aspirazione, assemprata sull’istante, il momento magico che solo ha il sapore dell’eterno. Può essere l’estasi amorosa, può essere lo smemorarsi nel deliquio di un tramonto. «Non possiamo niente per sempre, ma un momento può essere per sempre»: così dice Konrad a Gabri ne “La mano di Annibale”.
Ma è nel racconto “Tempo irreale” che Caccia riesce con geniale metonimia a trasporre in un luogo o, meglio, in una sorta di non-luogo (o «limbo») – un casello ferroviario dismesso in riva al mare, tra due gallerie di cui non si vede la fine, dove il suo alter ego narrativo si ritira per mettere a punto un intervento per un importante convegno di studi – il concetto stesso di sospensione: «Il tempo uguale al luogo: un tratto di terra tra due nulla, uno spazio dove si assommava il tutto, l’irripetibile […] una verità in bilico tra due gallerie dove la ricerca si sarebbe impantanata tra fanghiglia e gocce d’umido dalle volte». Lo scettico non ha alcun ubi consistam su cui poggiare, nessuna verità, se non la liquidità del dubbio, cui affidarsi. La stessa ragione che lo guida annaspa e s’impantana nella friabile realtà, non di rado ostica e ostile, che lo circonda, gravida di misteri, di zone d’ombra inesplorate. Sono enigmi, questi, che fatalmente provocano la ragione, sfidandone la sagacia e mettendone in discussione l’efficacia.
Né Giovanni né, tanto meno, Konrad stanno contenti al quia, ma partono senza indugio per la quête muovendo incontro all’aventure con la baldanza dei cavalieri erranti. Gli enigmi contemplano sempre una soluzione, e questa non può essere che logica. Si tratta solo di trovare il bandolo giusto per giungere a dipanare la matassa, per ingarbugliata che sia. Sul loro cammino incontrano, com’è ovvio che sia, oppositori e aiutanti, anche falsi. Giovanni, incaricato di studiare un’antica setta eretica, i Penti, rintanati in una valle inospitale dove erano sopravvissuti a tutta una serie di feroci persecuzioni promosse ora dall’Inquisizione ora dal potere politico, si trova ad affrontare la diffidenza sospettosa e minacciosa degli abitanti della Val Reposta. Ed anche in questo caso il paesaggio grigio e opprimente, nella sua splenetica incombenza, accompagna a mo’ di cupo bordone l’inchiesta dello studioso, evocando di continuo la temperie ostile del luogo. Egli non riesce a sfondare il muro di omertà dietro cui, tra reticenze e intimidazioni, si trincera la comunità, sulla quale i discendenti degli eretici perseguitati esercitano un soffocante controllo. Solo il parroco gli fornisce alcuni documenti significativi e nel contempo la chiave per comprendere la situazione: si tratta di quella che già Tocqueville aveva individuato come il principale rischio della democrazia, cioè «la tirannia della maggioranza». «Noi e gli eretici, la stessa cosa», gli dice il buon curato: «È una questione di potere. Di avere il potere e disporne». Una dichiarazione, questa, che, insieme all’incongruenza, più volte sottolineata, tra i nomi e le cose, ci rimanda alle tesi di Foucault.
Non è l’unico indizio della cultura aggiornata dell’Autore: qui e altrove, ad esempio, si fa riferimento pure a Tertulliano e, nell’impeccabile ripresa dello stile epistolare secentesco degli inserti documentali, si susseguono citazioni od echi di Platone, Eraclito, Manzoni… Altrove, oltre agli amati classici, sono menzionati Eco e Wittgenstein. Tutto in modo discreto, però, senza pedanteria. E dove potrebbe rinvenirsene qualche traccia, ci pensa l’ironia di Fede, la fedele compagna di Konrad – che lo supporta con la sua perizia informatica e lo sopporta, non senza qualche recriminazione, nei suoi sbalzi d’umore e nelle sue balzane iniziative -, a smontarle.
Il primo racconto della Ricerca vale anche a dissipare ogni sospetto di indulgenza all’idillio. Come si vede, la montagna non è di per sé un luogo edenico, e qui basta, a dimostrarlo, l’ossessione monocromatica che ne caratterizza la descrizione, dal «grigio uniforme» della valle al «cielo di cenere» che baudelairianamente grava su di essa. Oltre a ciò, la malizia delle persone è fisiognomicamente declinata nel naso adunco e rapace della bibliotecaria, nello «scostante sorrisetto» del professor Comotti, nel «viscido umidore» della sua stretta di mano, nell’«occhio inquisitorio» del sindaco, nella «risata sgraziata e cattiva» di una donna, nel «sorriso di scherno» di un’altra, nel «sorrisetto velenoso» dell’albergatore… Una tecnica, questa, cui Caccia si mantiene fedele anche nei racconti successivi, dove i “cattivi” – come in certi fumetti d’antan – si riconoscono d’acchito dal ghigno scontroso dell’uno, dalla «voce sgraziata» o dal «ringhio velenoso» di un altro, dagli occhi che scintillano «di un bagliore freddo» di questo o dallo sguardo torvo di quello. Fino alla incisiva sineddoche – «la bocca larga e sgraziata» – che designa il “cattivo” dei “Ruderi di un tesoro” e che ritorna ogni volta a connotarlo, secondo un vezzo formulaico mutuato dall’epica classica; vezzo o cifra stilistica che ritroviamo pure in vari altri casi: si pensi al «sorriso obliquo» di Fede o all’«attempata Land Rover» di Konrad.
Sul piano stilistico diciamo sùbito che questo non è l’unico tratto distintivo: il periodare di Caccia è indubbiamente moderno nella sua icastica speditezza, musicalmente impostato, talora giocato, soprattutto nelle schermaglie tra Konrad e Fede, sull’ironia e sul battibecco, ma senza mai scadere nella sciatteria o nella gratuita volgarità. In diverse occasioni – strette finali, climax – il discorso subisce un’accelerazione espressiva evidenziata da una certa concitazione o dal subitaneo spostarsi dell’obiettivo da questo a quel personaggio, da questa a quella situazione, interrompendo l’ordinaria scansione dei capitoli. Ma la cura formale si nota anche nel lessico sempre puntuale e perspicuo, non di rado impreziosito dall’uso transitivo di verbi che tali in genere non sono, quali, ad esempio, sorridere, scendere, trapelare, vociare, o dall’inconsueta costruzione di altri, come dardeggiare, illudere, beneficare seguiti da un oggetto lato sensu interno. Soluzioni invero estrose, di classica ascendenza anch’esse.
Piccolo è bello assicurava, fin dal titolo, un aureo libretto di Ernst Friedrich Schumacher, ma Caccia non esita a smontare pure questa illusione. Egli – lo ripetiamo – non crede all’idillio, ma se, nel primo racconto, il male sembrava materializzarsi, per così dire, nell’angusta Val Riposta, pregna di echi dantescamente infernali, tanto che l’uscirne e scendere al basso era stato per Giovanni motivo di sollievo, ne “La mano di Annibale” il male arriva per contro dal basso: «Sembrava impossibile che anche lì, nella pace assoluta, potesse arrivare il male dal basso, che le nuvole tetre calate come ad attanagliare quelle case buttate in mezzo al verde significassero che nulla era al riparo, che il mondo dal basso toccava ogni luogo, anche quello che più di tutti meritava di esserne immune». Ma è soprattutto nel racconto intitolato “Vesperbild” o, meglio, nella storia autografa di Lollo Gerbi, lo “Speciale” di cui parleremo più avanti, che il mito della comunità solidale viene messo in discussione.
Gerbi proviene da «un paese non tanto piccolo da vedere sempre le solite tre, quattro case, ma nemmeno troppo grande da non conoscersi più o meno tutti, con gli incomodi che questo comporta e che contrariamente al dire comune prevalgono di gran lunga sui vantaggi». È ben vero che egli non intende generalizzare il proprio caso personale e nemmeno negare in assoluto la possibilità che «tra chi condivide un piccolo spazio di contro all’anonima spersonalizzazione di una città» si sviluppi un autentico «senso di solidarietà», ma il suo esempio è significativo: per il suo carattere schivo e amante della solitudine che lo porta a dissociarsi dai coetanei e a sentirsi a disagio nella stretta delle «stesse case» e delle «stesse strade di tutti i giorni» egli finisce per segregarsi dal consorzio umano e per essere bollato come «strano». Col tempo il «marchio» comunitario diventa occasione e pretesto di pubblico dileggio e di emarginazione sociale. Esasperato dai dispetti e dagli oltraggi subiti, un giorno egli reagisce scatenando tutto il suo furore represso sul cane nero di un vicino che gli aveva ucciso l’amato gatto, unica sua consolazione. Il cane straziato a morte – e non a caso di un «nero d’inferno» – assume ai suoi occhi la connotazione del male e della maledizione comunitaria gravante su di lui. Per liberarsene definitivamente, lascia il villaggio e si addentra alla cieca tra balze montane, sotto un acquazzone che egli spera purificatore. Giunge stremato a un capanno, dove si abbandona a «un dormiveglia senza tempo», da cui lo riscuote la comparsa improvvisa di un uomo che si dice mandato per salvarlo.
È uno «Speciale», anche lui passato per il suo stesso calvario e incaricato di trasmettergli le sue stesse prerogative: «Proprio tu», gli dice, «posto dagli altri al di sotto di ciò che è definito la media, acquisterai la virtù di difendere una fetta di quell’equilibrio che ancora ci sorregge. Non considerarlo un dono, piuttosto un impegno che la tua qualità di Speciale dovrà comportare». È una vera e propria investitura, che diverrà efficace solo dopo che Gerbi avrà compreso l’irrazionalità del suo gesto: nell’uccidere il cane, visto come «la somma di ogni male», egli si era illuso di essersi sbarazzato di tutti i suoi nemici, ma, così agendo, aveva «solo aggiunto torto a torto». Superata questa soglia iniziatica e rinato a nuova vita, lo Speciale viene inviato a quel «grumo di case» sull’Appennino tra cui sorge anche quella di Konrad. E lì diventa «custode del luogo»: una sorta di angelo laico che lo preserva dai profanatori e, forte dei suoi poteri di chiaroveggente, protegge pure, a più riprese, l’avventato ricercatore che, spinto da una irrefrenabile curiosità, si avventura a sfidare e magari sfatare il mistero.
Lo Speciale, in virtù di «un istinto peculiare», sente il male ed opera per impedirlo. È Lollo Gerbi, infatti, dopo aver trovato la leggendaria spada di Annibale, a levare dai guai Konrad e Fede, frustrando i tentativi reiterati di chi vuole impossessarsene per dominare il mondo; è ancora lui, con i suoi messaggi sibillini, a indirizzare il «letterato amante dei misteri» sul luogo della fontana dell’uomo morto (nel terzo racconto di Ricerca) e a soccorrerlo nei “Ruderi di un tesoro”; è sempre lui, infine, in “Vesperbild”, a difenderlo, per interposta persona, dai malvagi avversari. In “Tempo irreale”, invece, il ruolo dello Speciale è surrogato dal vecchio casellante a riposo, straordinario conoscitore di treni, che ha il merito di condurre Konrad a scoprire o, meglio, a vivere il segreto della «sospensione» ovvero del «momento tra due gallerie [emblemi del nulla], dove il treno di un altro tempo» si fa realtà. E a serbarne l’eco.
Queste figure eccentriche e svirgole non si possono ridurre – come invita sbrigativamente a fare la narratologia – alla loro funzione di “aiutanti”; pensiamo piuttosto che siano un lascito della tradizione, non solo letteraria, e, più precisamente, una smentita dell’insignificanza o dell’illeggibilità del mondo. Personaggi di confine, enigmatici ed oracolari, essi sembrano dirci che la ricerca è necessaria e in qualche modo congenita alla vita, ma lasciano pure intravedere, al fondo, al di là di ogni nichilistico relativismo, la presenza, anzi l’esistenza di una legge, di un senso (etico, se vogliamo) che altro non è se non l’essenza stessa del logos. Senza di esso, la stessa ricerca sarebbe vana e, appunto, insensata. Si tratta insomma di scegliere tra il bene e il male; sì, perché il male esiste e senza di esso non ci sarebbe neanche il bene.
Il male, in questi racconti, assume talvolta le sembianze del complotto, della Spectre, che, per mera libido dominandi, in diverse forme, aspira al potere universale e, di conseguenza, a impadronirsi di tesori o di mezzi ad hoc indispensabili. Costi quel che costi. Se non fosse che nella sua rappresentazione un po’ fumettistica e soprattutto nella acritica credulità che ne anima gli adepti ci pare di avvertire una sommessa vena d’ironia, verrebbe da rimproverare a Caccia una condiscendenza a espedienti narrativi di bassa lega, da feuilleton o da letteratura di consumo: non degni comunque di un cultore dei classici come lui. Anche perché altrove, in questi racconti, ci sembra di scorgere una costante volontà di verosimiglianza.
I suoi personaggi, Konrad e Fede in particolare, rappresentati nella loro quotidianità fatta di accordi, di assidua complicità, ma anche di piccoli dissapori e di stimolante conflittualità, sono affatto plausibili. Veri direi. A cominciare dalle loro manie, dai loro momentanei malumori, alla continua ricerca – come sono – di un’intesa da perfezionare. Le loro stesse professioni, le loro competenze, da letterato umanista lui, da «smanettona» informatica lei, sono più fattori di unione che di divisione. Gli opposti si attraggono e in qualche modo si integrano e si completano. Le occasionali e sporadiche infedeltà di lui, che le chiama e considera solo delle «parentesi», valgono a rinsaldare il loro sodalizio. E lo stesso potrebbe dirsi del fatto che Fede – nomen omen – è credente, laddove Konrad va fiero del suo inscalfibile agnosticismo.
L’ultimo racconto della serie, “Vesperbild”, ambientato per lo più a Novi Ligure, induce il narratore ad alcune amare considerazioni sul degrado della città, in ispecie del parco e del centro urbano, quasi deserto e mortificato dalla chiusura dei negozi, dal proliferare (altrove) delle profane cattedrali degli ipermercati. Ma quello che più condividiamo, fors’anche per un istintivo senso di solidarietà professionale, è il senso di amarezza e di frustrazione che viene dalla quotidiana constatazione dell’inarrestabile sfacelo della pubblica istruzione, dal vedere le scuole ridotte a fiere di vaniloquio, a bivacchi di analfabeti presuntuosi e di presuntuosi esperti del nulla, sommerse e devastate da adempimenti burocratici senza fine e senza scopo, destinate a sfornare gli “ultimi uomini” di nicciana memoria. Tutto questo, più ancora che la passione di Konrad per l’automobilismo sportivo e per le escursioni, ci lascia credere che, sia pure con le debite differenze, il personaggio, un po’ filosofo-filologo, un po’ Indiana Jones di provincia, sia davvero una controfigura dell’Autore.