Il senso di inferiorità dei chierici italiani della disinformazione di regime nei confronti dei colleghi britannici non è certo una novità. D’altronde gran parte del gregge italiano vive un perenne senso di inferiorità rispetto agli inglesi. Lo si è visto nei giorni del giubileo elisabettiano, con servizi televisivi che superavano ogni limite di servilismo e piaggeria. Però è anche vero che, per ciò che riguarda l’informazione, i britannici sono dei veri maestri. Non nel fornire le notizie, ma nel nasconderle o nel mistificarle.
È dunque estremamente meritoria l’opera di Luigi Bruti Liberati che, nell’ottimo “Storia dell’Impero Britannico 1785-1999” (Bompiani, 18 euro ben spesi per quasi 500 fitte pagine), racconta ciò che gli inglesi han sempre evitato di raccontare. Anzi, che hanno cancellato dalla memoria collettiva. Occorre subito chiarire che Bruti Liberati è palesemente filo britannico. La sua ammirazione di fondo traspare, e lui stesso lo ammette. Però, da grande storico, cerca la verità e cerca di raccontarla.
Una verità che, in qualche caso, può sembrare poco più di una nota di colore. Come la clamorosa sconfitta britannica a Saint Domingue (ora Haiti) non per opera dell’esercito francese bensì per mano degli ex schiavi di origine africana. Una disfatta totale su cui Londra ha fatto calare una cortina di silenzio. La storiografia ufficiale indica nella guerra tra Russia e Giappone, all’inizio del ‘900, il primo caso in cui i “non bianchi” sconfissero un esercito di “bianchi”, di fatto creando l’esempio che avrebbe portato alla decolonizzazione mondiale.
Ovviamente gli inglesi ed i loro lacchè volevano evitare che si ricordasse la sconfitta inglese contro gli Zulù. Così come non era il caso di ricordare Adua e l’Amba Alagi. La giustificazione era che si trattava di singole battaglie e non di una guerra. Ma a Saint Domingue, contro l’ex schiavo Toussaint l’Ouverture e la sua armata improvvisata, Londra perse la guerra e dovette ammainare l’Union Jack ed abbandonare l’isola. Meglio cancellare l’episodio.
Così come, in epoca di politicamente corretto e di cancel culture, non è il caso di ricordare le stragi compiute dai britannici in India. E non nella fase di conquista, perché à la guerre comme à la guerre. E dunque le montagne di cadaveri non fanno notizia. Ma dopo. A metà dell’800, quando gli indiani di alcuni territori provarono a ribellarsi alle angherie ed ai soprusi britannici. Alla mancanza di rispetto per le tradizioni locali, per le diverse culture, per le differenti religioni.
Risultato? Quasi 900mila morti, in gran parte donne, vecchi, bambini. Orrendi massacri, villaggi e paesi dati alle fiamme con gli abitanti all’interno. E, molto spesso, morire in quel modo era persino preferibile, considerando le alternative generosamente offerta dall’esercito degli invasori inglesi. In fondo ad Abu Ghraib gli americani non hanno fatto altro che imitare gli inglesi in modo molto ma molto più soft. Gli indiani musulmani venivano cuciti dentro pelli di maiale prima di venir impiccati; gli indù dovevano ingerire a forza pezzi di carne di vacca prima di essere uccisi; i brahmani dovevano leccare il piscio degli intoccabili prima di essere massacrati. Donne e bambine erano stuprate prima della morte liberatoria.
Una realtà scomoda, dunque rimossa. E che nessuno deve far conoscere. Perché Londra deve continuare a pontificare, a condannare popoli molto meno sanguinari, ad indignarsi contro chiunque faccia solo una minima parte di ciò che han fatto i britannici in giro per il mondo. Loro, gli inglesi, possono processare il mondo. Ma gli altri, il mondo, devono solo applaudire al passaggio della carrozza reale di Elisabetta. Nel tripudio orgasmatico degli inviati delle tv italiane.