Se prendiamo il concetto di morte, come paradigma di analisi e di interpretazione della politica attuale – e delle sue manifestazioni concrete nella realtà condivisa – si comprende meglio l’impostazione ideologica di certe scelte culturali e sociali.
Il relativismo culturale – direttamente collegato al pensiero debole – è la morte della verità, perché negando l’idea stessa di certezza documentata, rifiuta ogni dottrina e ripudia ogni principio, privilegiando le interpretazioni personali e la chiacchiera opinionista, in una atmosfera di paradossale intolleranza verso qualunque precetto. Con esso finisce anche il confronto e il giudizio, fattori selettivi per definire il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l’errato.
La teologia dell’uguaglianza è la morte di ogni vocazione personale, annegando la realtà differenzialista in un magma inconsistente di individui simili e indefiniti, genericamente omologati, disarticolati da un proprio senso di appartenenza identificabile e dispersi in un calderone di gusti e di visioni del mondo. Con essa si chiude la minima possibilità di creativo rapporto tra diversità di opportunità e di intenti.
Il politicamente corretto, introdotto per tutelare le minoranze e combattere le discriminazioni – esattamente definito come neolingua – è la morte del pensiero libero, inteso come la lecita espressione delle proprie persuasioni e dei personali stati d’animo, aggravato da una pressante censura da parte dei commissari politici della nuova ortopedia moralistica. Con esso il pensiero critico è criminalizzato, e ogni dubbio, quando non è reato, diventa pericolosamente sospetto.
L’ideologia gender, con le sue varie infiltrazioni in ambito giuridico, biologico, medico, sociologico e linguistico, è la morte delle leggi di natura, con la sovversione di ogni dato di oggettività accusato di essere una manipolazione culturale e un equivoco rimaneggiamento dovuto alle contingenze storiche e a soprusi educativi da sradicare definitivamente. Con essa la valenza psichica – quando non è artatamente sovvertita – viene scomunicata e resa eretica.
L’apologia dei diritti – a buona ragione intesa come incremento alla gratificazione delle voglie – è la morte del desiderio, inteso nella sua più ampia accezione psicologica, ovvero di quel sentimento di insoddisfazione che è la molla del cambiamento interiore, della ricerca di nuove vie di realizzazione, della volontà perseguire un proprio particolare destino. Con essa, per il singolo significa ebete adattamento euforico, per la massa diventa una forma di incosciente assuefazione.
L’atmosfera di morte è ampiamente diffusa – della cultura, della scuola, della giustizia, della famiglia, della comunità e via via elencando – metastatizzando istituzioni, coscienze e mentalità. Ma sopra e intorno ad essa c’è la sorgente di questo clima malsano e funesto, che si insinua e pervade l’intera realtà, come il malvagio e astuto Forestaro di jungeriana memoria.
È il pensiero unico quale morte del conflitto dialettico che, tra le tesi e le antitesi dei diversi interlocutori, tende a raggiungere una sintesi concettuale che cerchi di soddisfare le differenti sfumature di convinzioni e di pareri. Esso non ammette alternative non solo pratiche, ma neppure ipotetiche. Pretende un riconoscimento totalizzante e un assoggettamento incondizionato. È come la testa della Medusa: è lì bisogna attaccare, è la parte da decapitare, evitando il suo sguardo ingannatore e paralizzante.