Il calcio italiano non parla italiano. Non è certo una novità ed i disastri della Nazionale, assente per la seconda volta consecutiva dai mondiali, sono la inevitabile conseguenza. Brasiliani, argentini, africani. Ora anche una folta legione di calciatori in arrivo dall’Europa dell’Est. E non è che croati, serbi, polacchi arrivino in Italia a costo zero. Dunque perché non valorizzare i vivai nazionali? Al di là del fatto che, ormai, anche le formazioni giovanili sono infarcite di ragazzi stranieri.
Ci sono, indubbiamente, gli interessi degli agenti dei calciatori che determinano i mercati delle grandi squadre. Giri di denaro non sempre trasparenti. Ma esiste anche un problema di base su cui si cerca sempre di sorvolare. Il problema delle famiglie dei giovani calciatori. Non solo il fastidio di avere a che fare con genitori che litigano con l’allenatore perché non fa giocare titolare il loro figlio brocco, non solo i genitori che si picchiano sugli spalti per i motivi più assurdi.
Il vero problema è a monte. Sono le famiglie che crescono aspiranti campioni psicolabili. Con una fragilità di carattere che impedisce di affrontare le difficoltà inevitabili in ogni sport ed in ogni momento della vita. Ragazzini che si sentono campioni del mondo a 10 anni e che, di conseguenza, non accettano di essere messi in panchina solo perché hanno fatto schifo nelle ultime partite. Ragazzini che imitano le pagliacciate dei giocatori di serie A, che si buttano a terra urlando non appena vengono sfiorati. Sceneggiate insopportabili sui campi dove giocano i professionisti, ancor più inaccettabili per ragazzini alle prime armi.
Manca la capacità di soffrire, di lottare, di impegnarsi. Nello sport come nella scuola. Adolescenti che non sanno affrontare una interrogazione, e che reagiscono con crisi di nervi ad un voto negativo, non possono certo illudersi di poter competere con coetanei abituati a ben altre sfide fisiche e mentali.