Il cambiamento climatico è una realtà. Si può discutere sulle cause, ma poi occorre agire per adeguarsi alle conseguenze del mutamento. E se ci sono riusciti, in tutto il mondo, nei diversi periodi di raffreddamento e riscaldamento, non si vede perché adesso tutto diventi più drammatico.
Se, per quasi 400 anni, a partire dall’anno mille, uomini e merci transitavano tra Valle d’Aosta e Svizzera dove ora, in estate, sopravvive ancora il ghiacciaio; se in Piemonte alcuni paesi e colline hanno toponimi che ricordano l’epoca della coltivazione degli ulivi; se su Alpi ed Appennini si trovano, in quota, i resti dei vigneti poi abbandonati per l’arrivo dei secoli più freddi; allora significa che il riscaldamento globale non vuol dire scomparsa del genere umano.
Certo, occorre cambiare colture. Occorre adattare le attività alla nuova, ma anche antica, realtà. D’altronde alcune decine di anni orsono si discuteva sullo zucchero da aggiungere al vino per alzare la gradazione alcolica. Mentre ora il problema è ridurre la gradazione naturale.
In Italia ogni cambiamento, compresi quelli che riportano ad una tradizione plurisecolare, è visto con fastidio, più che timore. Perché il cambiamento richiede investimenti e le imprese italiane hanno il terrore degli investimenti se non sono a carico dello stato. L’auto elettrica fa paura non per ciò che comporta in termini di fabbisogno energetico, ma perché impone cambiamenti radicali a parte della componentistica.
È ovvio che la transizione ecologica impone costi che non possono essere scaricati semplicemente sui cittadini. I prezzi delle vetture elettriche sono insostenibili per la maggioranza degli italiani. Lo stesso vale per mettere a norma le abitazioni private secondo i criteri imposti da Bruxelles. E sostituire i frutteti con uliveti non è certo alla portata di molti agricoltori.
Ma altri interventi, a partire dalla semina, per adattare le produzioni al clima non sono un problema economico. Solo mentale. “Si è sempre fatto così”, è l’alibi. Ma è falso. Perché mille anni prima si faceva ciò che andrà fatto nuovamente domani.
Si possono cambiare gli orari di lavoro nelle attività all’aperto. Si possono creare condizioni di lavoro decenti nelle fabbriche e negli uffici (si dovrebbe fare a prescindere dal caldo..). Si può cambiare l’approccio turistico. Si possono offrire, a prezzi decenti, soluzioni per ridurre consumi non solo superflui ma proprio inutili.
Però, poi, si fanno i conti con la realtà. E per incentivare il trasporto pubblico a Torino si aumentano i prezzi dei biglietti e si peggiora il servizio. A Milano il biglietto costa anche di più, ma il comune offre gratuitamente l’acqua da imbottigliare nelle apposite casette, mentre a Torino anche l’acqua pubblica si paga.
È evidente che il salasso continuo drena risorse che mancano quando servirebbero per affrontare i costi dei cambiamenti. Anche questo è un problema di mentalità. Gli amministratori locali sono impegnati a far cassa in ogni modo, a partire dagli autovelox. E l’emergenza climatica diventa meno drammatica quando la priorità è mantenere una pletora di politici e dirigenti pubblici. Che, in pieno accordo con ogni forma di potere pubblico e privato, trasforma il cambiamento climatico in emergenza, per determinare nuovi comportamenti, per indirizzare i consumi, per creare nuove occasioni di spesa che impoveriscono i sudditi e li rendono più deboli e controllabili.