Un post, come accade spesso. Un post di un Gruppo legato alla mia città di origine. Dalla quale manco ormai, per una ragione o per l’altra, da molti, forse troppi anni. È un post semplice, senza tanti fronzoli o voli pindarici. La foto di una vecchia pasticceria, che ha chiuso (viene ricordato) già a metà degli anni ’80. Un buchetto. Una vetrina sulla piazza. Davanti al cinema teatro Excelsior. Niente di che…niente su cui soffermarsi. Se non sul ricordo che, per molti decenni era famosa, in questa stagione, per il suo castagnaccio. Il dolce dell’ autunno.
Dolce naturale. Chè, un tempo, non era uso aggiungervi zucchero, né altre farine. Si faceva solo con le castagne, che di loro, se buone, sono dolci abbastanza . E poi vi si aggiungeva uva passa e pinoli. E lo si faceva abbastanza alto e soffice. Per lo meno rispetto a quello toscano, che è più basso, e con l’aggiunta di rosmarino. Sapori diversi… Tradizioni diverse. E tuttavia il castagnaccio è dolce che si trova un poco ovunque in Italia. O, perlomeno, ove vi sono castagneti. Che sono boschi, o meglio macchie boschive bellissime. Imponenti e secolari, parte integrante della macchia mediterranea. Però capaci di spingersi anche più a nord. Nel sud della Germania. Dove Hermann Hesse ambienta lo strano medioevo del suo “Narciso e Boccadoro” romanzo di un’amicizia che si fa paradigma delle due vie interiori, l’ascesi intellettuale e l’arte sensuale. E che si apre, appunto, con la descrizione di un grande castagno solitario.
Tuttavia è pianta meridionale. Mediterranea. E al Mediterraneo profondamente legata. Dall’arco alpino lungo la pianura padana e la dorsale appenninica. Sino alla Sardegna e, soprattutto, alla Sicilia. Dove si trovano gli esemplari più antichi. Millenari. Uno, dicono, vecchio di ben quattromila anni. Quindi precedente la colonizzazione di greci e cartaginesi che a lungo si contesero l’isola. Prima che arrivasse Roma. E precedente anche all’arrivo dei Siculi, che vi lasciarono il loro nome. Un castagno che, probabilmente dava già i suoi frutti ai misteriosi Sicani. I più antichi abitanti di cui si serbi, almeno, una qualche memoria.
Probabilmente già allora forniva quella farina da cui si traeva un pane. Pane dell’età dell’oro, che veniva da frutti spontanei, senza necessità di cura umana. Così nelle Giorgiche di Virgilio
Il pane dei poveri, più tardi. Che il Pascoli descrive in Myricae e nei Poemetti. Il canto di un mondo contadino che già ai suoi tempi si avviava a svanire.
Il pane di castagne è, di fatto, scomparso. Forse ancora riscoperto nei momenti difficili delle due grandi guerre. Ma le castagne sono rimaste come ingrediente di piatti autunnali, saporite zuppe, farciture di capponi e tacchini, e, poi dolci. Dai raffinati, e deliziosi, Marron glaceè, che si sciolgono letteralmente in bocca, e rappresentano un autentico attentato a linea e glicemia sino al più rustico, per certi versi rude castagnaccio. Di cui l’uso si va, purtroppo, spegnendo.
Il sapore del castagnaccio evoca le foglie ormai cadute o cadenti, nuvole di colori – i toni del rosso, dell’arancio del giallo, dell’ocra… – sollevate, per un attimo, dal vento. E poi subito rese fradicie dalla pioggia. E presto decomposte. In cenere.
È il sapore e il profumo che lascia presagire l’ormai prossima stagione dei morti. E l’avvicinarsi dell’inverno.
È il sapore della nostalgia. E della malinconia. Due buone compagne in una sera, insolitamente fredda, di ottobre.