Salvador Dalì ha dato quella che, a mio parere, è la più concisa, e al contempo perfetta definizione della differenza fra classico e romantico. Che non sono solo due tendenze letterarie e artistiche del secolo XIX, bensì due polarità dell’anima umana. E come tali perenni. O, per lo meno, caratterizzanti una lunga epoca di cultura umana. Quella che siamo usi chiamare, in modo abbastanza improprio, “civiltà occidentale”.
Ma torniamo a Dalì. Che era un genio…. eccentrico, certo, anche se mai è stato davvero chiaro quanto “ci fosse” e quanto “ci facesse”. Perché ricordo perfettamente una vecchia intervista, ricca di paradossi surrealisti. Alla fine della quale, però, disse più o meno così:
Certo, io sono un genio… ma perché vivo in questa epoca. Se fossi nel ‘400, con Raffaello, Michelangelo, Leonardo…. non sarei nulla. Un cretino qualsiasi che dipinge…
Esagerava, naturalmente. Ma è significativo della sua coscienza di artista.

Comunque, su classico e romantico fece una affermazione decisa e secca.
Il romantico è colui che, ovunque si trovi, vorrebbe essere altrove.
Il classico è, invece, quello che ovunque sia, ci si trova perfettamente. Perché lì è il centro dell’Universo. Io sono un classico.
E infatti aveva dipinto la famosa tela della Stazione di Perpignan. Stazione ferroviaria dei Pirenei, piccola, insignificante. Ma dove lui, Dalì, ebbe la percezione, ed esperienza, di essere al centro del Cosmo. Andate a vederla. Descriverla è, purtroppo, impossibile.
Polarità della natura dell’uomo contemporaneo. Che nasce, appunto, nello scorcio fra ‘700 ed ‘800. E trova il suo paradigma in figure come Werther. E soprattutto Faust. Che è opera (quella di Goethe, naturalmente) dalle innumeri letture, e dalle ancora più numerose, possibili, interpretazioni. E tuttavia è, forse in primo luogo, analisi della inquietudine. Perché Faust vaga non solo nello spazio, ma anche nel tempo, alla ricerca di un luogo, e soprattutto di un “attimo” che sia… bello. Che lo appaghi. Che spenga quel senso di spaesamento, di perenne insoddisfazione che lo tormenta. Che è il suo vero demone. Mefistofele.

“Che ci faccio qui?” Intitola Bruce Chatwin una raccolta di scritti tra i più densi e intensi della sua produzione. Sono quelli nei quali maggiormente si delucida la sua attrazione verso la vita nomade. L’uomo senza radicamento in un suolo. Senza vincoli di proprietà. Libero, forse. Ma, certo, inquieto. Sempre alla ricerca di un nuovo pascolo. Di un altrove che si pone oltre la linea dell’orizzonte.
È lo stesso animus che ritrovo Sulla strada di Kerouak. I suoi “Vagabondi del Dharma” alla ricerca di una legge interiore, di una stabilità non sociale ed economica. Di un Asse che non vacilla, per ricordare Confucio.
Confucio. Come Buddha. E, se vogliamo Parmenide, per lo meno nella lettura di Emanuele Severino. E, soprattutto, come rappresentante di un antico mondo “classico”. Nel quale l’uomo si sentiva radicato nella sua città. E nei legami di sangue che la innervavano. Un mondo ormai perduto, e per il quale già Dante provava nostalgia. Come dimostra nell’incontro con l’avo Cacciaguida.

All’uomo odierno tale radicamento “classico” appare ormai completamente precluso. Il nostro destino è l’inquietudine. Quella di Faust. Che è, per altro, forse l’unico antidoto al grigiore di una esistenza che tende a schiacciare gli individui. A renderli insetti. O automi. Come in Metropolis di Fritz Lang…
La perfezione classica? Il sentirsi, o meglio l’essere centro dell’universo, di cui parla Dalì?
Beh, quella può, forse, essere conseguita dopo un lungo, e tormentato, viaggio faustiano. Quando il personaggio di Goethe contempla le terre bonificate. Apparentemente un’inezia a fronte delle mirabolanti avventure vissute. E, però, solo allora dice all’attimo:
Fermati! Sei bello!