È noto a tutti che il contrario di virtù è immoralità, corruzione, vizio, malcostume, perversione, dissolutezza, scostumatezza, disonestà, maleducazione ed altro, ma due termini sfuggono e vengono artatamente oscurati dall’ideologia vincente: democrazia e borghesia.
Questa manfrina per inquadrare quanto è accaduto dal punto di vista pubblicitario al libro del Generale Vannacci.
La democrazia è quell’idolo della modernità – ben diverso dalla tanto citata e poco o niente studiata democrazia ateniese – che si fa portatore del Bene, anzi, di più, esportatore del Bene a tutti i costi. E non c’è niente da fare. Il vitello d’oro della virtù democratica deve essere venerato dalla massa perbenista, e chiunque osi mettere in evidenza la farsa “virtuosista”, per dirla alla Pareto, deve essere sacrificato sull’altare del pensiero dominante.
Il Bene non può essere messo in discussione, ma accettato unanimemente e con deferenza senza possibilità di negoziazione. È la verità rivelata, lo spirito santo della borghesia illuminata, le tavole della legge della Costituzione, il verbo dei padri fondatori. Tutto si può mettere in discussione – la verginità della Madonna, la diversità tra maschio e femmine, le leggi climatiche di natura ecc. –, ma non quanto inciso nella metafora marmorea del credo democratico.
Poi, ovviamente, ci sono i celebranti del rito ipnotico, i chierichetti della funzione celebrativa, gli imbonitori del catechismo democratico. Ma c’è ben altro in questa dottrina totalizzante: gli inquisitori.
La conferma si è avuta nelle convulsioni critiche al libro del Generale. Non importa averlo letto, né tanto meno approfondito, ma l’odore di zolfo è stato percepito subito dagli annusatori del politicamente corretto. Basta un gesto non consono per scovare la strega.
Le armi sono sempre le stesse, caratteristiche di quella che Donoso Cortes definiva “la burguesía como clase discutidora, costituida de habladores compulsivos”. Il rappresentante di questa categoria è l’esilarante Andrea Scanzi. Lui straparla, confronta, estrapola, distorce, proclama, denuncia e sentenzia con una supponenza che si barcamena tra patologico e il grottesco, tra il maleducato e l’insultante. Il problema non è il confronto di realtà, ma l’obbligo di accettazione dell’immaginazione. “L’odio per ogni forma di pensiero, dunque di ogni possibilità critica, di ogni velleità di negare il presente è già lì, scolpito, nella legge. Nel codice. Incontestabilmente”, dice Philippe Muray. Lui è lì, il cerimoniere del “Gran Galà dei certificati di buona condotta”, il Bernardo Guy del politicamente corretto, il Torquemada aretino che censura il libero pensiero vizioso.
Lui e altri sodali, a rappresentare questo spettacolo censorio, ma sempre educatamente democratico; virtuosi plenipotenziari di “Una società ideale, vincente e luminosa come la nostra [che] non l’accetta la minima descrizione critica”. Una società affetta da un “Bene incurabile”.