Laqueur diceva che il buon vivere di una nazione era determinato dall’equilibrio fra libertà e ordine: un punto mediano tra l’anarchia e l’autoritarismo.
La definizione, per quanto arguta ed acuta, ben s’attagliava alle forme di coabitazione sociale del secolo che fu: oggi, in Italia, il fattore determinante mi pare che sia un altro.
State tranquilli, electomagici, non vi attaccherò un pippone clamoroso su economia, lavoro e cultura: per questo ci sono già quelli bravi. Vi dirò, invece, qual è il vero deficit che, secondo me, affossa il nostro Paese: il deficit di civiltà. Civiltà minima: far passare le signore, alzarsi sull’autobus per far sedere un anziano, considerare ciò che è pubblico di tutti e non di nessuno.
Si comincia così: stando seduti composti, non interrompendo chi parla, non sporcando, non infastidendo il prossimo. Di lì ha inizio la civiltà di un popolo: non dai massimi sistemi, non dalle pagine filosofanti. E l’Italia inizia a fare schifo proprio dall’educazione di base, per poi passare alle grandi inciviltà: quelle che ci mettono in ginocchio, giorno dopo giorno. Perché dal fregarsene del prossimo che ti passa gomito a gomito, si fa presto a fregarsene delle regole, dell’etica, della legge, che sono la sostanza dell’essere una comunità e non un branco.
Così, prima di affrontare la spinosissima questione del debito pubblico o del malaffare politico, dovremmo interrogarci sulla nostra, mignola e personalissima, inciviltà: sulla nostra microcorruzione dilagante. Perché che la mafia sia mafiosa, perdonate il calembour, ce lo possiamo aspettare: ma che siamo tutti quanti un tantino mafiosi, come popolo intendo, questo no, non dovremmo accettarlo.
E, gira che ti rigira, tutto parte dall’educazione: da quei fondamentali anni in cui si formano il carattere e la coscienza degli uomini e in cui si decide se sarai un bravo cittadino oppure una palla di sterco prestata alla società. Coloro i quali determinano la rotta dell’Italia, i timonieri, si scervellano (si fa per dire) su questioni aoristive, contingenti: se pensassero in termini un filo più millenaristici, noterebbero immediatamente il loro errore macroscopico d’impostazione. Perché, per avere un Paese competitivo, moderno, onesto, efficiente, bisogna forgiarne prima i cittadini: è impossibile pensare di ottenere angurie dove si seminano zucchine.
La lotta all’evasione fiscale andrà anche fatta abbassando le tasse o scatenando la Guardia di Finanza: ma, alla base, bisogna che i cittadini siano fondamentalmente onesti e che vedano le tasse come una necessaria ridistribuzione dei redditi e non come un ladrocinio. Andate a vedere i livelli d’evasione di certe regioni, per i cui abitanti lo Stato è una via di mezzo tra una sanguisuga e una grande tetta da succhiare: davvero credete che abbassare le aliquote li convincerà a divenire cittadini consapevoli e partecipanti?
Ci vuole un Rinascimento nazionale: e i rinascimenti partono sempre dal basso, dal sistema educativo, dalle botteghe, dal senso di appartenenza, non dai mecenati e neppure dalle accademie. Certo che, con i governanti che ci ritroviamo, immaginare una svolta culturale, un nuovo corso educativo, appare un tantino velleitario. Leonardo era uomo sanza lettere, ma non aveva un curriculum da animatore, dj o bibitaro. Civiltà vo cercando, ch’è sì cara…