“Vuoi tu questo ancora una volta, e ancora innumerevoli volte?”
Così, secondo il Nietzsche della Gaia Scienza, un Demone notturno. Che striscia nella tua camera. E ti propone… Il Patto. Un insolito, inquietante patto.
Non è la tua anima che chiede. È il tempo. Ovvero ti offre di uscire dal tempo che scorre. E ti sfida ad accettare un perenne, sempre uguale presente.
La sfida del Demone è la risposta che Nietzsche dà a Goethe. O meglio al Faust. Con il quale, sottilmente, sempre si misura. Sospeso tra l’ammirazione e l’agonismo. Ammirazione per il genio di Goethe, che come nessun altro aveva saputo rappresentare il travaglio della conoscenza proprio dell’uomo moderno. Ma anche, inevitabilmente, agonismo. Misurarsi con Goethe significava andare oltre ciò che Faust rappresentava. E, quindi, oltre l’umano, ancorché nella sua espressione più alta. Solo in questo confronto mi sembra davvero possibile comprendere il suo Zarathustra…
E lo scontro con Goethe, o meglio con l’ingombrante ombra di Faust avviene proprio sul… tempo. O meglio su quella che è la chiave di volta di tutta la costruzione goethiana. Fermare l’attimo dicendogli: Sei bello!
E allora il Demone giunto nella notte, ti chiede: Vorresti davvero che tutto questo si ripetesse all’infinito?
Perché la monotonia, l’eterno ritorno dell’uguale sarebbe, comunque, una maledizione. Qualcosa di inaccettabile per l’animo umano, perennemente inquieto. Perennemente in attesa di altro. Che guarda al futuro con timore e, al contempo, aspettativa.
Nietzsche sapeva bene, da “vecchio filologo” come amava definirsi, che l’attimo faustiano derivava dall’interpretazione del concetto greco di Kairòs. Che, in origine, indicava il momento propizio. Opportuno, da afferrare per realizzare una qualsiasi cosa. Ma che la filosofia aveva trasformato nella capacità di sospendere lo scorrere del tempo ordinario. Di vivere, per una volta, quel presente che sempre ci sfugge. Sospeso tra un attimo di passato e uno di futuro. Tra ciò che non possiamo più avere, e ciò che ancora non è. Chiave di volta del pensiero epicureo sulla realizzazione della Felicità. Di cui il, famoso, Carpe Diem oraziano rappresenta la versione più famosa…
Certo, non solo Epicuro. Non solo la scuola del Giardino. Tutto il pensiero classico è ossessionato dal cogliere l’attimo in cui si apre una porta misteriosa tra le due diverse dimensioni del tempo. Kronos che divora inesorabile i suoi figli. Ovvero i giorni e tutto ciò che vive, come ci dice Cicerone… E Aiòn, misteriosa “divinità” orfica, rappresentata con corpo di uomo, testa di leone e avvolta nelle spire del serpente. Immagine che rimanda allo Zurvàn persiano… Aiòn è il tempo come dimensione eterna. Che non scorre e non conosce mutamento. Luce, laddove il tempo ordinario è, in fondo, solo diverse sfumature di tenebra…
Ed è di questo, appunto, che ci parla il Demone. Esiste, può davvero esistere nella vita un momento di così compiuta, perfetta felicità che tu vorresti fermarlo? E continuare, poi, a riviverlo sempre uguale, senza mutamenti… per sempre?
Domanda che equivale a dire: esiste il Paradiso? O meglio, è possibile concepire il Paradiso nella vita ordinaria?
O non è che un atto di alterigia, tracotanza… Ybris come la chiamavano i greci. Ovvero la pretesa del nostro “io” – ovvero di quell’insieme di pulsioni egotiche, istinti, paure ed altro con cui siamo usi identificarci – di ottenere una immortalità impossibile. Perché assolutamente in contraddizione con la sua natura. Transitoria. Effimera. Destinata, dalla nascita, al capace ventre di Kronos.
Ma il Demone di Nietzsche non ci dà una risposta. Si limita a porci, insinuante, una domanda. Sempre la stessa. Sei mai stato perfettamente felice in un qualche momento della tua esistenza?