Buzzati diceva che “Il deserto dei Tartari ” era il libro della sua vita. Me lo ricorda, con un post su fb, una mia Amica. Che, come me, ama Buzzati e quel libro. Forse anche più di me.
Ogni grande scrittore, in fondo, ha un libro con il quale maggiormente si identifica. Nel quale proietta e rivede la sua vita. Non è necessario essere autobiografici, come era Svevo, che nei tre, grandi, romanzi ha, in fondo, narrato le stagioni della sua vita. Buzzati era fatto di pasta diversa. Un autore onirico. Capace di superare di continuo il sottile diaframma che separa la realtà dal sogno. Che diviene, poi, più reale della, grigia, quotidianità. Forse fa eccezione solo “Un amore”, che è l’opera più sveviana dello scrittore bellunese… ma anche lì, forse, ci sarebbe qualcosa da notare sul, tormentato, rapporto fra Dorigo, maturo alto borghese, e Laide, la giovane prostituta. Perché, comunque, in Buzzati il piano del mito, del fantastico, urge pur sempre dietro la patina di realismo.
Era un maestro del Realismo Magico. Surreale come i quadri di Salvador Dali. Un narratore di fiabe, che aveva nel sangue, quasi atavico retaggio del suo essere uomo delle montagne e dei boschi. Però il libro in cui, certamente, ha più specchiato la sua vita, resta il Deserto dei Tartari.
È il romanzo dell’attesa. Un’attesa che si protrae per tutta l’esistenza, grigia e monotona, del Tenente Drogo. Un’attesa che diviene paradigma e metafora.
Perché Drogo è l’uomo. Che trascina l’esistenza aspettando che intervenga qualcosa a mutarne il corso sempre uguale. Qualcosa da fuori di lui. Che è rappresentata da una, misteriosa, minaccia. I, fantomatici, tartari. Che vivono nel Deserto. E che dal Deserto dovrebbero giungere per distruggere l’ordine apparente, e, appunto, monotono. Della civiltà.
Una civiltà ormai esausta. Priva di ogni vitalità. Di ogni slancio e, in fondo, di ogni speranza. Gli ufficiali della fortezza Bastiani, che di questa civilizzazione al crepuscolo dovrebbero essere gli estremi difensori, ne sono l’incarnazione. Privi di ideali, apatici, abulici. Tutti ormai preda delle loro nevrosi. Della loro mediocrità.
Drogo è diverso. Lui vive nell’attesa. Nell’attesa dei Tartari. Dell’azione. Della battaglia. Che sarebbe, comunque, una soluzione. Ma l’attesa, vana, lo consuma. Quando muore, sembra che finalmente i Tartari stiano per giungere. Ma anche questo è solo un falso segnale. Forse…
In fondo è come l’attesa dei Barbari nella famosa lirica di Kavrfis. Non vi sono più barbari, dice nel suo cristallino greco di Alessandria. Erano una soluzione, dopotutto….
È tema canonico del pensiero del ‘900. Spengler, certo. Che vide il Tramonto dell’ Occidente, con i barbari che giungevano dai due orizzonti. Da ovest e da est. Finis Europae. E della sua civiltà ormai involutasi negli effimeri splendori della Bella Epoque.
E poi Berdjaev. Meno determinista del tedesco. Ma non meno apocalittico. Anche se il suo Nuovo Medioevo lascia una qualche speranza di palingenesi. Di rinascita e rigenerazione. Come, in fondo, sempre è stato ogni Medioevo. Da quello Ellenico, da cui sorse la civiltà greco – latina, a quello nostro. Che sfociò in Dante, Giotto, Michelangelo, Leonardo…
E se proprio vogliamo esagerare – e, visti i tempi, provocare le anime belle (e ipocrite) – mettiamoci pure il Marinetti Filippo Tommaso. Guerra sola igiene del mondo!
Poi, ci sarebbe la, incredibile, Trilogia di Jünger. “Sulle scogliere di Marmo”, “Heliopolis”, “Eümeswill”…. La visione più lucida, profetica… e terribile. Ed anche la più intensamente poetica. Perché solo nella poesia, e nella bellezza, vi è un senso. O, forse, una possibilità di salvezza…
Perché parlo di questo oggi? In apparenza la risposta è semplice. C’è la guerra. E vi siamo dentro con tutte e due le scarpe. Anche se facciamo finta che così non sia. Menzogna a noi stessi, che potrebbe costarci molto cara…
Tuttavia lungi da me identificare qualcuno con i Tartari o i Barbari.
Piuttosto, è alla Fortezza Bastiani che penso. Una prigione in cui Drogo invecchia. Attendendo invano qualcosa che venga dall’esterno.
Una versione moderna, e geniale, del mito del Labirinto. In cui siamo Asterione, il Minotauro. E corriamo, ci agitiamo, infuriamo. Sempre, però, prigionieri. Attendendo che la Spada di Teseo ci liberi. Come nel racconto di Borges.
Ma forse, oggi, non c’è un Teseo. Forse non ce lo meritiamo…