Un’immagine, postata (come si usa oggi dire) da un Antico Amico, mi porta lontano. Nel tempo e nello spazio….
Beh, si dirà, ma tu non hai niente di meglio da fare? Sempre lì a rubare spunti da fb?
E da dove dovrei prenderli? Dalla vita che sembra rappresa, congelata, paralizzata? Uno le idee, gli spunti per pensare, fantasticare li pesca da ciò che ha intorno… E io intorno questo ho. I libri, guardare il cielo, scorrere le immagini su fb…. ben poco altro. E mica è una mia scelta…
Comunque l’immagine è del Carso triestino. Sul finire dell’autunno. In questa stagione in sostanza. Potrebbe essere stata appena scattata. Come risalire a molti anni fa. Le cose, lì, non mutano.
È un trionfo di colori. A macchie. Potrebbe essere opera di un impressionista. Di un grandissimo, geniale impressionista. Tutti i toni del rosso, dalle sfumature arancioni al vermiglio acceso. E del giallo, da quello tenue all’ocra e all’oro. E i verdi poi… lo smeraldo e il sottobosco. Persino delle pennellate di acquamarina… Guardandolo capisci appieno perché Pound, nei Cantos, definisce Dio “il Grande Esteta”.
E comprendi le pagine più felici, dal punto di vista descrittivo, dello Svevo di “Senilità”. E perché il suo amico Paolo Veruda – mascherato nello Stefano Balli del romanzo – seguisse, in quella Trieste del primo ‘900, le modalità pittoriche dei grandi atelier impressionisti di Parigi. Quei colori, quella tecnica era insita nelle cose. In quel paesaggio. In quella natura.
Dove tutto non è forma precisa, definita…. è sensazione visiva, mutevole. Cangiante. Continua metamorfosi. Se torni in un luogo dove sei stato appena un paio di giorni prima, non ti è possibile riconoscerlo. I colori sono già mutati. Sconvolti.
Esperienza che, se lasciata risuonare nel silenzio – e il Carso è anche silenzio – ti insegna l’impermanenza delle cose. Ti fa comprendere come la vita sia un continuo fluire di percezioni e sensazioni, e quanto sia assurdo pretendere di imprigionarla in una rappresentazione statica. In un qualche schema o sistema di stereotipi. Il paesaggio del Carso ti dimostra le tesi di Eraclito. E il nucleo essenziale del pensiero di Buddha.
Di fronte a un tale, abbacinante, spettacolo non puoi e non devi porti domande razionali sul domani. Devi divenire solo sguardo. Occhi che contemplano. E lasciare che le percezioni vengano a te. Improvvise. Sorprendenti. In certo qual modo anche caotiche. Perché in quel magma di colori sembra urgere un qualcosa di primordiale. Anzi, di primigenio. L’esplosione della vita dall’indistinto. Prima che divenga forme definite. O meglio, prima che la nostra ragione la imprigioni in forme definite. Perdendo così la percezione vivente di tale pura potenza…
Ricordo… Sì, ricordo, è quasi inverno, nell’anno e nella vita, ed è, inevitabilmente, la stagione dei ricordi, come nella quarta (ed ultima) delle splendide Quattro Sonate di Ramon della Valle Inclàn…
Ricordo le lunghe passeggiate nel Carso autunnale quando frequentavo l’università a Trieste.
Il silenzio interrotto dal fruscio del vento fra le foglie, dal canto di un uccello solitario.
R. che parlava. Conosceva come pochi quei luoghi. Ci conduceva in doline segrete. Polle d’acqua celate in avvallamenti. E rese invisibili da chiome di grandi alberi che, visti dal sentiero, apparivano come macchie di cespugli. Luoghi, a loro modo, misteriosi. Ricchi di segreti.
Vi era, e certo vi è ancora, anche un Mitreo. Una grotta cui si accede da un pertugio stretto, aperto sul dorso di un dosso. E difficile da scorgere. Uno specchio d’acqua. La stele con l’effige del Tauroctono, scolpita con mano sicura. Vi entrammo una volta, violando i divieti di un cartello, lì posto da qualche burocrate delle Belle Arti, a tutela di non si capisce bene che cosa… Visto che quasi nessuno lo conosceva quel luogo. E ancor meno erano coloro che osavano andarvi.
L’atmosfera era strana. Mi figurai ombre di legionari, con le vesti rituali di pastori. Ombre, fantasmi… ero giovane, e i discorsi che accompagnavano quel girovagare incendiavano l’immaginazione. Discorsi che era bello fare. Così, per dirla con Dante, come qui, ora, è bello tacerne.
Poi si finiva sempre in qualche gostilna. Che oggi temo siano per lo più diventati ristoranti. Ma che allora erano ancora dei rustici rifugi, stanzone imbiancato e cucina a vista, con donne, per lo più vecchie slovene, che spignattavano…. E si mangiavano sempre le stesse cose. Palacinche e civapcic. Gnocchi con le prugne cosparsi di burro fuso e cannella. Lubijanska…. Strudel… I sapori, i profumi del Carso. Che mi tornano vividi, quasi stessi ancora lì. Ad assaporare quei cibi. A contemplare quei colori. A sentire quelle voci…
Ricordi. Meglio ancora rimembranze. Perché non vengono dalla mente, per un attimo in silenzio. Vengono dai sensi. Che non hanno mai dimenticato…