Per le Chiese – al plurale, ché il culto è comune a cattolici, ortodossi e persino copti – Martino è il Santo Vescovo di Tours, un milite, anzi ufficiale romano, originario della Pannonia. Che poi, oggi, sarebbe più o meno l’Ungheria. Il San Martino Cavaliere che dona metà del mantello ad un povero infreddolito. E il povero è Cristo. E gli appare in sogno…
Storia ben nota. Ma per me, San Martino, andando indietro con la memoria è, innanzitutto, un sapore. E un insieme di colori. Perché i cibi si degustano con gli occhi, oltre che con la bocca.
Un dolce. Tipicamente veneziano. E mai esportato. Ben poco noto anche nel resto del Veneto. Un dolce di pasta frolla, con glassa d’uovo e zucchero. A forma di Cavaliere e cavallo. Decorato con confetti e praline. Lo facevano i fornai. Poi, le pasticcerie vi aggiunsero la copertura di cioccolato, cioccolatini ed altro…
In antico, vi era, invece, una sorta di medaglione di cotognata, con l’effige di San Martino. E ancora in qualche luogo lo si può ritrovare… Ecco questo, per me, è San Martino, la festa dell11 novembre. Questi colori e sapori, e il suono delle pignate battute dai bambini per calli e vie. La richiesta di frutta secca e dolciumi. Ben più antica, da noi, di Halloween…
Che ci volete fare? Nel ricordo, non nella memoria intellettuale, restano queste cose, che danno un senso ai giorni. Allo scorrere, ciclico, dell’anno.
Perché San Martino è uno snodo del tempo. Segna la fine delle dodici notti magiche, iniziate con la Vigilia di Ognissanti. Il Capodanno celtico, lo chiama qualcuno. Il periodo di Samahin. Fine della stagione dei frutti e dei raccolti. E inizio della lunga, oscura, pausa invernale.
Per questo nel nord Europa, Austria, Germania, Fiandre, i bambini inscenano processioni con lucerne e fiaccole. Inneggiando al Santo con allegre canzoncine. Le Chiese dicono che lo si fa in memoria dei funerali di Martino, che sarebbero caduti proprio in questa data…un modo per assimilare antichi riti di Saluto al Sole, che è nel momento della sua vertiginosa discesa. E di auspicare la sua rinascita, nel Solstizio ancora lontano.
A San Martino, nella Marca Gaudiosa – come si usa chiamare il Trevigiano, antico feudo dei da Romano, i temibili Ezzelini – usa l’oca arrosto con i sedani e le patate. Come nel Nord Europa. Dove un tempo col sangue dell’oca si faceva anche una densa zuppa.
L’oca è animale simbolico. Soprattutto quella selvatica che vola nel Sole. Per questo la si sacrifica, nella versione domestica, e la si mangia in particolari ricorrenze legate al ciclo dell’anno. Se avete letto il Cantico di Natale di Dickens, avrete scoperto che il piatto principale della festa era non il tacchino, bensì proprio l’oca. Che presso i Romani era sacra a Giunone. In Egitto ad Iside. Per i celti era, invece, Epona. E nelle fiabe, che da quel popolo ci giungono, è l’aspetto con cui si possono presentare le fate o altre bellissime donne, che giungono a noi di là dal sogno…dove è perenne la luce.
L’ oca arrosto è squisita. E così il bollito misto, altro piatto di questi giorni. O meglio, di queste ricorrenze. Sino a sette, e più, tagli di carne di manzo. Gallina. Cotechino. E salse poi. Cren, che fa sembrare delicato il wasabi giapponese. Salsa rossa. Salsa verde fortemente agliata. Sale grosso. E verdure… E col brodo, capelli d’angelo.
Un trionfo di sapori. Ora lontani. Che restano, però, scolpiti nel libro della memoria. E che non sono solo mera crapula. Ghiottonerie per impenitenti golosi. Perché il gusto è uno dei sensi. E tutti i sensi sono porte. Che possono aprirci altre dimensioni dell’essere. Rivelarci i misteri del tempo e della natura. Come nel Castello d’amore del Marino. Dove Adone passa attraverso l’esperienza dei cinque sensi, per essere infine pronto alla più alta percezione intellettuale dell’eros…
Ripenso al dolce di San Martino. Mi sembra quasi di sentire, in bocca, sciogliersi la frolla decorata di glassa zuccherina. E i confetti scrocchiare sotto i denti. Mi invade una profonda malinconia.