Al diavolo, com’è noto, il fuoco piace. E molto. Non per nulla le rappresentazioni, tradizionali e convenzionali, dell’inferno sono sempre avvolte dalle fiamme. Un trionfo di rosso cupo, su fondale nero.
Anche Dante non fa eccezione. Per quanto nelle profondità abissali della Caina disegni un paesaggio avvolto nel ghiaccio. Un ghiaccio che brucia più del fuoco, eco, probabilmente, della Gehenna islamica…
Però, nel resto della prima Cantica, a dominare è comunque il fuoco in tutte le sue declinazioni. Sangue o pece ribollente. Sepolcri roventi da cui si erge, altero, Farinata degli Uberti. Lingue di fiamma dalle quali viene la voce dell’inquieta ombra di Ulisse…
In Dante, però, il fuoco torna anche in ben diversi contesti. Il sogno all’inizio della Vita Nova. Il Dio d’Amore che regge Beatrice tra le braccia. Nuda, avvolta solo da un sottile drappo rosso. E le fa divorare il cuore del poeta. E quel cuore arde. E tutta la scena è avvolta in una rossa nebbia di fuoco.
Evoca l’immagine di divinità femminili dello Shivaismo indiano, Kali l’oscura. Durga La distruttrice. Ma anche Praavati, la madre e sposa celeste. I due aspetti del femminino eterno… Sempre rappresentate in una “mandorla” avvolta dalle fiamme. Passione e combustione. Ma anche rigenerazione e rinascita spirituale. Il mito dell’Araba Fenice…
Il fuoco è simbolo della passione. E perciò piace al diavolo. L’inferno non è, in fondo, che un ardere mai pago. Passioni inappagate. Inestinguibili. Che non concedono mai pace.
Ma se vuoi giungere alle stelle, devi sfidare il fuoco. Passare attraverso la sua sfera, che avvolge la nostra terra al di là di quella dell’aria. Dante la dovette attraversare, e la descrive come ferro fuso incandescente. Ma non sentì bruciore. Perché con lui era Beatrice. Non la donna nuda avvolta dal drappo sanguigno. La Beatrice splendente di pura luce. Perché il fuoco arde alla base. Ma la sua fiamma diviene via via più bianca. E pura. Il segreto dell’opera alchemica…
E don Juan insegna allo spaventato e perplesso “Carlitos”, come chiama Castaneda, che solo imparando ad accendere il Fuoco dal Profondo lo stregone guerriero yaqui giunge a superare la barriera dell’illusione. Quella barriera che imprigiona gli uomini comuni. E li rende inetti e preda del terrore per la fine…
È vero. Il fuoco è associato al diavolo. Ma è un po’ come il Mefistofele di Goethe, nel Prologo in Cielo del Faust. Che si presenta innanzi a Dio con fare irridente. E lo definisce, con uno strano affetto, il Vecchio. Cosa che suscita la collera di Michele. Pronto a rimettere mano alla spada….
Ma Dio lo ferma. E sorride. Perché lo spirito che tutto nega è necessario perché si possa giungere alla Verità.
Così il Fuoco. Brucia. Ma spinge ad essere liberi.
“Vivere ardendo, e non sentire il male…” Scrive Gaspara Stampa..
Aveva ragione… Anche perché, appunto, l’inferno più profondo non non è fuoco, ma ghiaccio. Ovvero la paresi. L’immobilità. L’assenza di passioni. Di slanci. Di vita….
Il nostro mondo, insomma. Privo d’ogni fiamma.
Paralitico, più che paralizzato. La paresi che condanna ad una parvenza di esistenza priva di vita …