Siamo tutti immersi nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle. Così scrive – più o meno, perché cito a memoria – Oscar Wilde. Uno dei suoi aforismi fulminanti. I motti di spirito per cui andava meritatamente famoso nei, raffinati ed annoiati, salotti di Bloomsbury o giù di lì… In quella Londra bigotta e puritana che, di lì a poco, lo avrebbe condannato al carcere. E portato a prematura morte. Tragedia – perché di questo si trattò – di cui resta traccia indelebile nel suo scritto più sincero ed emozionante. “De profundis”.
Ma Wilde continua a restare più che altro noto per i suoi aforismi. Soprattutto in un’epoca come la nostra, dominata dai Social, e da una concezione della cultura (e del pensiero) ridotta in pillole. Di qui il continuo uso ed abuso di sue citazioni che, sinceramente, mi infastidisce. Anzi, urta. Perché il grande irlandese viene trattato, e considerato, alla stregua di una Merini o di un Bukowski. Inaccettabile…
Tuttavia questo aforisma è particolare. Merita di essere letto. E pensato, anzi meditato con attenzione. Senza tirar via con l’ordinaria superficialità della nostra epoca, che sembra riuscire a trasformare tutto, anche la poesia, anche la filosofia, in una sorta di take away.
Siamo immersi nel fango. Tutti. Senza eccezioni. E il fango ci opprime, ci circonda, ci soffoca. Ci rende luridi. Ci piaccia o meno. È la condizione ordinaria dell’uomo contemporaneo.. Forse presagio della fine (ormai, mi auguro, prossima) dei tempi. Della consunzione della nostra specie. Che si è arrogata il ruolo e il diritto di dominare il mondo. Dimenticando che è stata impastata col fango. Dal Dio biblico o dal Prometeo del mito greco, poco conta. La nostra origine è “umile”. Dal latino humus. La terra, la Mota. Il fango, appunto.
Il nostro è il peccato più grave. O meglio, la colpa, nel senso classico del termine. Hybris. Tracotanza. Orgoglio smisurato. Il sentirci tanto superiori alla stessa Natura, da pretendere di sfuggire alle sue leggi. E precipitare così, senza accorgercene, in un abisso privo di ogni luce. E di ogni, pur cupa, bellezza. Da dominatori del mondo a schiavi delle nostre paure. Il fango in cui ci troviamo immersi. E da cui sembra impossibile uscire. Come le sabbie mobili: più ti agiti, più vi sprofondi. E ti sporchi.
E questo fango diventa, gradualmente, il nostro habitat. Ci affezionamo a ciò che ci sta soffocando. Non vogliamo più uscirne. Odiamo chi ci dice che non è il luogo sicuro che vogliamo credere. Che non è la salvezza dalla nostra grande paura di morire. Anzi, quel pantano è la vera morte. Che ti strappa la capacità di vivere, prima ancora di farti esalare l’ultimo respiro
Nietzsche, altro maestro dell’aforisma, della Sapienza Folgorante, per dirla con Giorgio Colli, scrisse che per rimanere puliti in questo mondo, è necessario imparare a lavarsi con l’acqua sporca. Ma per farlo è essenziale sapere che questa acqua è sporca. Che quello in cui siamo immersi è solo fango. Non cioccolata. Altrimenti ci autoilludiamo di vivere nel migliore dei mondi possibili. Come insegnava quel sublime imbecille del dottor Panglosse ad un, ingenuo ma dubbioso, Candido. E se ci illudiamo, o ci lasciamo illudere, nel fango, o nella Fantozziana merdaccia, sprofondiamo tutti contenti.
Wilde sapeva bene che per pulire le Stalle di Augia Eracle non vi entrò. Deviò il corso di un fiume. Che trascinò via con sè ogni lordura.
Così, potranno salvarsi solo coloro che non sono appagati o abituati al fango. E che, nonostante tutto e tutti, alzano il capo. E contemplano le Stelle lassù. Pure e lucenti in un cielo terso.