Ferruccio Bianchi, L’irresistibile tentazione di oltrepassare il limite, Amazon Italia Logistica, Torrazza Piemonte 2022.
Dietro un giallo, un noir o una crime story può esservi una serie di motivazioni profonde: dall’esigenza, ad esempio, di indagare la natura umana anche nei suoi aspetti più oscuri a quella di interrogarsi sul mistero del crimine o sull’eterno conflitto fra bene e male. Con ciò non si vuol negare che in molti casi prevalga o regni sovrano il piacere di confezionare un avvincente thriller che tenga sulla corda e appassioni il lettore. Nondimeno, tipica del postmoderno – come ci ha insegnato Umberto Eco – è la tecnica narrativa del double coding, ovvero della possibilità di un duplice livello di lettura. Che non dobbiamo escludere, se l’Autore stesso, in limine, si premura di avvertirci: come fa, appunto, Ferruccio Bianchi nel suo ultimo noir, L’irresistibile tentazione di oltrepassare il limite, con una citazione di W. H. Auden: «C’è sempre un’altra storia, c’è più di quello che si mostra all’occhio».
Il romanzo è il secondo della serie che vede protagonista Heinrich Border, il carismatico detective che, per essere piombato in una terribile depressione dopo la morte della moglie in un’oscura imboscata in Uganda, era stato relegato in un bugigattolo, ad occuparsi dei casi insoluti. Di lì, boicottato da colleghi invidiosi ma assistito da quanti ancora ne apprezzavano l’acume, la sensibilità e la cultura, riemerso da un prolungato letargo psichico che lo assimilava ad «una monade senza porte e senza finestre», era brillantemente riuscito a risolvere due «incredibili casi» delittuosi (cfr. Solo con la luna piena, Wroclaw 2020); subito dopo, però, si era licenziato dalla polizia per ritornare all’insegnamento accademico. E proprio nelle sue vesti di apprezzato docente lo ritroviamo in cattedra presso la seconda università di Lubiana.
Non si tratta, in realtà, di un radicale cambiamento di vita, giacché – come gli ricorda la moglie defunta in uno dei loro consueti dialoghi onirici – anche da poliziotto egli non faceva altro che insegnare e fare ricerca. D’altra parte, egli è tuttora – bon gré mal gré – coinvolto nella soluzione di alcuni casi di suicidio, non meno inspiegabili che sospetti, avvenuti in Italia.
A sollecitarlo, su suggerimento di Uto Dravic, uno dei detectives rimastigli fedeli, è lo stesso commissario Carlo Morlotti, responsabile della Centrale anticrimine, non proprio un estimatore di Border. Su di lui ci eravamo soffermati nella recensione al primo romanzo di Bianchi, perché egli è certamente uno dei personaggi all’apparenza più comici del romanzo. Ogni volta che entra in scena, la situazione assume tratti grotteschi e buffoneschi, non soltanto perché l’impulsività si ritorce, di norma, a suo danno, ma anche perché le sue reazioni incontrollate lo trasformano in una marionetta o ne fanno comunque una macchietta che si presta alla satira o alla caricatura. Come puntualmente avviene.
Occorre pur dire che sia il contesto familiare sia quello professionale giocano un ruolo tutt’altro che secondario nella caratterizzazione comica de personaggio. Se lui – per dirla con espressione bergsoniana – “inciampa nelle cose” per colpa di una incontenibile irascibilità, la sua “spalla”, il vice commissario Bisiach, materiale e grossolano com’è, si rivela «un’arma letale», per sé e per gli altri. È lui, infatti, ad indurre il commissario, alquanto giù di morale, a saggiare una tragicomica esperienza sadomaso da «una vera fuoriclasse del settore», ed è sempre lui, per telefono, a riferirne quindi alla moglie le sconce prodezze. Senza rendersi troppo conto dei guasti che rischia così di combinare. Come pure, alla fine, dei grossi guai in cui lo trascinerà la sua golosa irruenza.
La signora Sabrina, dal canto suo, vittima del proprio bovarismo sentimentale, una volta al corrente delle “intemperanze” maritali, se ne giova per rintuzzare le possibili rimostranze del coniuge, cui anzi confessa di essersi fatta “rimorchiare” da un uomo e di aver provato piacere ad essere «ancora ammirata come donna». Paradossalmente, dall’emergere delle rispettive debolezze e dal destarsi nella donna di un interesse quasi morboso (e per certi versi comico anch’esso) per la sessualità, trarrà giovamento il loro, fin allora grigio, ménage familiare. Lo stesso Morlotti ne uscirà profondamente trasformato, «in grande spolvero», rispetto all’aggressivo e ringhioso uomo di un tempo: «uno dei pochi casi – si dirà – in cui portare le corna rende migliore». Ma questo, a ben guardare, è possibile per due ragioni: anzitutto perché, al pari della moglie, il personaggio è più umoristico (in senso pirandelliano) che davvero comico e pertanto passibile di evoluzione positiva (impossibile, invece, nel caso dell’ottuso Bisiach); in secondo luogo perché quest’ultima è l’effetto di un intervento “terapeutico” di cui lo stesso Morlotti accrediterà il merito a Border, promosso infine da antipatico rivale a stimabile professionista.
Bisogna anche aggiungere che Morlotti agisce in un contesto infido, minato dalla concorrenza – in realtà «una guerra interna cinica e crudele» – mossa da una struttura deviata dei Servizi Segreti agli ordini di Benito Farinacci (un nome che dice tutto), al di sopra della quale opera l’imperscrutabile lobby dei “sette gnomi”. Ad esacerbare il commissario è appunto lo stillicidio di «veline infamanti» prima e di fotomontaggi osceni poi con cui lo staff di Farinacci incessantemente lo denigra e lo perseguita complicandogli oltre modo la vita. Ancor più, inoltre, è l’ottusità con cui continua ad intralciare le sue iniziative, peraltro senza costrutto alcuno. Anzi, in questo caso, l’intero gruppo dei «culi di piombo» (come li chiama la polizia) va incontro alla sorte dell’arroseur arrosé, tanto che Morlotti, con soddisfazione, può infine constatare «che esiste la legge del contrappasso su questa terra».
Ma ancor prima, parlando con la moglie del film Il bambino con il pigiama a righe, vi aveva non a caso riconosciuto un buon esempio di come «decisioni profondamente sbagliate si rivoltino contro coloro che le avevano ideate». Ebbene, a Farinacci, al suo staff e al suo «sistema criminale», non estraneo all’attentato di cui restò vittima la moglie stessa di Border, ben si addice il registro grottesco adottato da Bianchi, ad esempio nella descrizione che un testimone traccia dei tre agenti da lui visti all’opera: «Avevano dei cappotti grigi, della stessa fattura. Portavano il cappello, tipo Borsalino. Somigliavano tantissimo agli agenti segreti dei telefilm americani che la tv trasmetteva quando ero un ragazzino. Quello che parlava di più aveva la faccia lunga, occhi stretti e labbra sottili. L’altro aveva la faccia tonda con un grosso neo sullo zigomo sinistro». Per di più uno di essi era anche strabico. Tanto per non dar nell’occhio… Non sfuggirà – crediamo – l’intento caricaturale di questo e di altri analoghi riferimenti a stereotipi desunti dal cinema o dalla tv. Anche dal punto di vista stilistico, d’altronde, Bianchi si rifà a tecniche cinematografiche, spostando di continuo l’obiettivo da un personaggio all’altro, con frequenti cambi di location, che gli consentono non solo di muovere ad libitum le fila del suo complesso plot, ma anche – come confessava argutamente l’Ariosto – di mutare spesso corda e variare suono, «ricercando ora il grave, ora l’acuto».
Border, sornione e introverso, resta comunque, a dispetto dell’innata sua ritrosia, il centro gravitazionale del quadro, tanto è vero che gli altri personaggi ruotano attorno a lui, calamitati dal fascino, non solo intellettuale, che ne promana. Colto senza essere saccente, sensibile e leale, egli riesce a far sentire a proprio agio tutti quelli che entrano nel suo raggio d’azione, valorizzandoli per quel che sono e stimolandone la collaborazione. Intuitivo e sagace come pochi, da lui, sostenitore di un metodo falsificazionista di marca popperiana, provengono le dritte necessarie a sciogliere i casi più difficili. Ai tratti del leader carismatico delineati da Max Weber egli aggiunge tuttavia una particolarità esclusiva: un po’ come la Didone virgiliana, che, non ignara malis, aveva appreso a soccorrere gli sventurati, anch’egli, provato dalla vita, si rivela comprensivo, indulgente, disponibile ad aiutare il prossimo. Persuaso che la vita non abbia senso, s’adopera nondimeno a renderla meno aspra e dura, a contrastare, per quanto possibile, senza fanatismi e sia pure senza troppe speranze, il caos e la violenza che rischiano di rendere il mondo invivibile. E che dipendono in gran parte dall’uomo, dalla sua esecranda sete di denaro e di potere.
Consideriamo, ad esempio, il tema della vendetta, che è uno degli argomenti principali del romanzo. Vendetta non è giustizia: un concetto, questo, che non è istintivo, ma si afferma con l’acquisizione della coscienza. Di contro all’irruenza di Achille, fu «la vicenda di Ulisse a mostrare che il percorso dell’umanità sarebbe stato quello di affidare alla legge il compito di ristabilire l’ordine sociale». Il capolavoro di Border non è tanto quello di risolvere un inquietante caso criminale legato alla diffusione di un nuovo allucinogeno, quanto quello di convincere Oswald Simic, un energico e potente uomo d’affari sloveno, già comunista duro e puro ed ora abile e pronto a cavalcare, con disincantata lucidità, la tigre dei tempi nuovi, a desistere dal suo desiderio di vendicare la figlia, vittima accidentale di un regolamento di conti abortito.
Ma il tema di fondo, a cui rimanda il titolo stesso del romanzo, è un altro e riguarda il tema della trasgressione, qui esemplificata dallo sballo o, meglio ancora, dal flagello sociale costituito dalle droghe. Che cosa c’è dietro l’odierna (ma potremmo dire eterna, dal momento che già la speculazione degli antichi Greci verteva in buona parte sui concetti antitetici di hybris e di metriotes) irresistibile tentazione di oltrepassare il limite? È questo un tema molto dibattuto dagli studiosi della psiche e della società. Qui, a quanto sembra di capire, le responsabilità principali sono addebitate al progresso, che avrebbe «tolto alla vita il fascino dell’avventura»: di conseguenza, solo «esperienze estreme» potrebbero «restituire il senso del vivere». Chiunque sia stato educato alla libertà avverte infatti «il bisogno di dare un senso alla vita»: l’alternativa sarebbe «quella di una vita senza il coraggio di viverla». Su questo si può anche dissentire: basterebbe ricordare la fondamentale distinzione tra “libertà positiva” e “libertà negativa” di Isaiah Berlin. O anche le sagge parole di John Stuart Mill, laddove rammenta che non si è felici se si cerca la propria felicità per se stessa, ma si trova piuttosto la propria felicità strada facendo quando si dedica la propria vita a una causa degna di essere perseguita (l’arte, la scienza, la filantropia).
Fatto sta che nella nostra società la felicità non coincide con «la consapevolezza piena di essere artefici del proprio destino nel creare», bensì con l’«ebetudine» indotta dall’accresciuta possibilità di accedere ai beni di consumo, di connettersi, di mettersi in mostra. Anche a costo di nuocere a se stessi e agli altri, secondo la sindrome di Erostrato, il mitico personaggio che per “fame di fama” ovvero per immortalare in qualche modo il proprio nome non esitò a incendiare il tempio di Artemide, ad Efeso, una delle sette meraviglie del mondo antico. Forse la nostra, più che l’«età degli estremi» (Hobsbawm), potrebbe dirsi l’«età dell’eccesso», come suggeriva lo psicoanalista Adam Phillips, perché l’estremo si spinge fino al limite, mentre l’eccesso va oltre il limite. In ogni caso, la tentazione della libertà dovrebbe tener conto della realtà del limite, da intendersi non tanto come un ostacolo, quanto come una condizione di vita e come un’occasione per diventare consapevolmente uomini. Il limite non è una mancanza, un difetto o un disordine dell’essere: è ciò che naturalmente siamo.
La condizione umana è quella dell’incompiutezza, della creaturalità, dell’essere-per-la-morte. E solo se prendiamo coscienza della nostra intrinseca finitezza, se dal “si muore” passiamo all’“io muoio”, rendiamo più autentica la vita stessa (Heidegger). L’atto trasgressivo si basa invece su un paradosso: quello di affermare, nel mentre li mette in discussione, l’esistenza di principi morali e di regole di condotta. Non ci fossero regole, non ci sarebbe trasgressione. Sappiamo però che, più di ogni astratta disquisizione moralistica, più dei divieti e delle sanzioni, nell’educare i giovani a passare da una “libertà da” a una “libertà per” contano la solidarietà e la comprensione, i consigli dispensati con affetto e amore. Spesso le proibizioni – come attesta l’esperienza di Zeno alle prese con il divieto di fumare – si rivelano controproducenti. È quello che viene definito “l’effetto frutto proibito”. In fondo, come diceva Oscar Wilde: «Il modo migliore di liberarsi dalla tentazione è cedervi».
Non va d’altra parte dimenticato che non tutte le avventure sono a lieto fine e i limiti che la società – ogni società – pone alla base del proprio ordine non sono senza logica e senza fondamento. Violarli per il solo gusto di violarli, in un gesto di sfida e di arroganza (di hybris), inteso a derivare ogni diritto e ogni legittimità esclusivamente da sé stessi (come pensava Max Stirner), non porta da nessuna parte e dà adito, per forza di cose, ad uno scacco esistenziale. Anche quando, come il “folle volo” di Ulisse, fosse giustificato da nobili intenzioni: che poi, per il fatto stesso di contravvenire a ogni pietas (erga Deos, erga patriam, erga parentes), tanto nobili non possono certo essere. Ma sembra che né a Border né al suo autore possa imputarsi una simile mancanza di pietas.Non si spiegherebbe altrimenti l’empatia che li caratterizza.