Molti anni fa, troppi a dire il vero, quando la scuola era ancora una cosa seria…e quindi si poteva scherzare. Un preside – allora erano ancora tali, e non come oggi, dirigenti /kapò – mi propose di fare il responsabile della sicurezza dell’istituto. Declinai. Dichiarandomi inadatto, in quanto “morbosamente attratto dal fuoco”. Da uomo di spirito, la prese in ridere. E lasciò perdere…
Io, però, non avevo fatto una semplice, e scema, battuta. Perché il fuoco mi ha sempre davvero attratto. Molto. Il fuoco, chiarisco, in senso metaforico. Non sono un piromane. Non vado in giro per le campagne incendiando boschi o pagliai. Ma il Fuoco, come immagine, metafora, similitudine (fate un po’ voi) mi attrae e mi ha sempre attratto.
D’altro canto, non potrei amare se non fosse così. Non potrei amare la poesia, innanzitutto. Perché i poeti hanno sempre evocato le immagini del fuoco, delle fiamme. Non ho, qui, la pretesa di farne una qualche cronistoria. Solo di raffazzonare stracci di citazioni, echi, memorie. Così come mi si affacciano alla mente.
Dalla fiamma sottile che si propaga per tutte le membra di Catullo, mentre siede innanzi a Lei, Clodia Pulchra la sua Lesbia, e la ascolta ridere. E sugli occhi gli scende una duplice notte..quasi una sindrome di Standhal…
A Rinaldo d’Aquino, che tra i Siciliani, cavaliere tra gli uomini di curia, e parente del grande Tommaso, fa del fuoco metafora della passione amorosa. E ne descrive tutte le fasi. Dall’inizio dell’incendio, la prima scintilla che lo sprigiona, al divampare sempre più prepotente, bruciante. Sino a che le fiamme, elevandosi verso l’alto, consumano la materia. E, come in un processo alchemico, si fanno pura luce..
E poi c’è lei. Gaspara Stampa. La voce femminile più cristallina e intensa del Rinascimento. Forse, di tutta la poesia italiana.
L’amante di Collatino da Collalto. Che la trascurava. E sposò, poi, un’altra, perché lei non era nobile di nascita. Non si rese mai conto della sua immeritata, fortuna. Quando la poetessa morì, la piansero in molti. Tra questi, il Benedetto Varchi, che nel darne l’annuncio al Della Casa – uno dei grandi del petrarchismo – la chiama Alta Gasparra. E la definisce “Saffo novella, ma dell’altra, tanto più casta, tanto più bella”…
Bella era, anzi bellissima. Come attestano tutte le fonti. Casta…è licenza poetica del Varchi. Perché la Gaspara Stampa fu, più di chiunque altro, colei che cantò la passione. E il fuoco.
Il suo verso più celebre “Vivere ardendo e non sentire il male” esprime perfettamente il potere, misterioso, del fuoco.
Il fuoco che brucia, consuma bruciando ogni materia. Arde la carne. Ed incendia la mente. La fantasia. Trasforma ogni cosa. Fa dei sensi, del piacere come del dolore, strumento per trascendere i limiti dell’umano. Non per nulla nelle discipline spirituali dell’India antica è necessario, durante la meditazione, accendere il “tapas”. Che equivale al latino “tepor”. Il fuoco dal profondo. Senza del quale è inutile ogni operazione interiore. Ogni conoscenza resta fredda. Sterile. Perché il fuoco è vita. Solo i cadaveri sono freddi.
Vivere ardendo. Ovvero, semplicemente, vivere. Ardere di passione. Per una Donna, per un’idea. In fondo sono la stessa cosa. Tutto ciò che non è penetrato di fuoco è cosa morta. È la sterilità che ci afferra e domina. La paura che ci paralizza. Che ci impedisce ogni slancio. Ci costringe ad una esistenza vuota. Priva di senso. Gli amori, come le idee, hanno bisogno di fuoco per essere. Se lo si perde, si diventa solo caricature di ciò che eravamo o che potevamo essere. La vera senescenza. Della quale la morte è l’unica conclusione. E, in fondo, avviene quando ancora si è parvenza di vita. Spesso, ancor giovani.
E mi viene in mente Palazzeschi, col suo Incendiario.
“Ogni verso che scrivo è un incendio /…. Mi par di vederle le fiamme /e sento le vampe, bollenti / carezze al mio viso….”