Dante definisce l’Italia il giardino dell’impero. E si scaglia contro l’imperatore Alberto Tedesco (Alberto d’Asburgo) perché lo trascura, quel giardino. Anzi, lo ha abbandonato all’incuria, al degrado civile e morale. Alle faide cittadine e alle guerre civili. Complice, in questo del Papa. Che, come dirà quasi due secoli dopo Machiavelli – guarda caso Fiorentino anche lui – è troppo debole per governare l’Italia. Ma troppo forte per permettere ad altri di farlo.
E poi c’è il Petrarca. Che nacque ad Arezzo, ma i suoi genitori, e l’idioma, erano fiorentini. Il padre esule di parte bianca. Come l’Alighieri. Di cui era amico.
Petrarca dedica all’Italia la sua più famosa lirica “politica”. E un’ode latina. Un indirizzo di saluto. Guardando dalle Alpi – viveva per lo più in Provenza – verso il Mediterraneo. Il nostro mare. E canta la bellezza di quella che definisce Madre. La bellezza della Natura e dell’arte che, qui, trovano una sintesi unica. E irripetibile.
Perché l’Italia è bella. Ed ha una ricchezza senza pari. Una biodiversità, come dicono quelli che parlano alla moda, unica. Il che vuol dire che la nostra penisola ospita più del doppio delle specie animali della, gigantesca, Cina.
E non parliamo dei prodotti della terra. Solo per fare un esempio, le mele. Se conoscono circa 1.200 varietà. Circa 900 sono in Italia. E potremmo parlare allo stesso modo dei cavoli, degli agrumi. – “dove lo trovate il chinotto? E il bergamotto? E…” – delle ciliegie, dei tuberi….
E non parliamo del cibo. Prendiamo solo i formaggi. Abbiamo più di trecento varianti regionali. Più della Francia. La Grecia ne ha due (una immangiabile), l’Inghilterra cinque o sei…
Il vino? L’olio? Dyoniso e Athena hanno benedetto la nostra terra. E non parliamo della cucina. Ogni regione, ogni città, ogni borgo ha piatti tipici. Poveri, magari. Ma straordinari per sapore e inventiva.
Vogliamo parlare dell’arte? Lasciando pur perdere la Magna Grecia e Roma, quanta parte del patrimonio artistico mondiale è sparso per la nostra penisola? Chi può annoverare, nel volgere della stessa generazione, qualcosa di paragonabile a Leonardo, Michelangelo, Raffaello? E non parliamo poi di Giotto, uno dei più grandi di ogni tempo, il più grande secondo il filosofo russo Nicolaj Berdyaev.
Senza dimenticare il maestro di Giotto. Cimabue. Simone Martini e i senesi. E ancora il Perugino, Paolo Uccello. I Veneti, Tiziano, Tintoretto, i Tiepolo. E poi Donatello. Elenco infinito.
E “artigiani” come i Della Robbia.
Architetti. Brunelleschi, Alberti…Vanvitelli..
E la letteratura. Dante, e subito dopo Petrarca, Boccaccio… Solo per fare un paragone, improprio, gli elisabettiani sono grandissimi. E culminano in Shakespeare. Immenso. Ma che deve ben più di qualcosa all’Italia. Forse non solo la cultura… Ma dopo?
Noi dopo la stagione di Dante, abbiamo Ariosto, Tasso, Marino…
E mi fermo. Perché, nello stesso periodo, con Machiavelli, e Guicciardini, insegnamo al mondo come si fa la politica. E come si parla di storia. Ancora oggi imprescindibili. Se ne discute in tutte le Università. Li si prende ad esempio. Da Washington a Pechino.
E anche se non abbiamo avuto, per lungo tempo, uno Stato, abbiamo avuto statisti. Grandi, grandissimi. Lorenzo de Medici su tutti. E, più vicini a noi, uomini come il Cavour, il Crispi. Altri che non nomino. Ma tanto per raccontare un aneddoto, e interrompere un elenco che potrebbe risultare noioso, quando Crispi cadde, Bismarck – che ben lo conosceva, e con il quale era uso conversare in latino, perché mica serviva l’inglese (sic!) – disse:
Come statista era molto superiore a me. Ma io avevo dietro l’amministrazione tedesca, e l’esercito prussiano. Lui, il nulla.
E qui veniamo al dunque. Il nostro Giardino ha il problema di chi vi abita. Gli italiani. O meglio quello a cui sono stati ridotti gli italiani. Perché, più passano gli anni, più mi suona falsa la frase del D’Azeglio:
Abbiamo fatto l’Italia. Ora dobbiamo fare gli italiani.
Gli italiani esistevano già. E avevano una storia ben lunga. E gloriosa. In tutti i campi. E questa frase, tanto citata a sproposito, adombra un vizio di fondo. L’idea che gli italiani non fossero che un volgo disperso. Senza nome, come dice il Manzoni.
Di qui la volontà, astratta, di costruire una identità che già c’era. E forte. E che non aveva alcun bisogno d’essere coltivata in vitro. L’idea di una élite che vuole costruire un paese che non c’è. Senza tener conto della realtà, della storia, della cultura.
Poco male, fino a che queste élite furono autentiche. E sinceramente interessate al progresso del paese. Ma, soprattutto da dopo gli anni ’80 del secolo scorso, abbiamo visto sempre più governare, in tutti i campi, delle oligarchie autoreferenziali. Compiaciute di sé, riverse solo sui propri interessi particolari. E soprattutto esterofile. Che hanno fatto dell’ Italia una colonia. Politica, economica e culturale.
Infine, negli ultimi anni, la prevalenza del cretino. O, se vogliamo richiamare Aristotele, la oclocrazia. Il governo della feccia. Spacciato, da un lato, per democrazia. Dall’altro per tecnocrazia. Il governo dei migliori, di cui stiamo pagando, tutti, le conseguenze.
E così il giardino è stato invaso da erbe infestanti. Coperto di immondizie (come le strade di Roma). Mosche e ratti. E ora davvero vi è un volgo disperso, senza nome né volto, che vi si aggira spaurito.
Eppure, il Giardino continua ad esistere. Andrebbe riscoperto. Partendo dalla sua vocazione geopolitica naturale. Che significa, anche, economia. E, forse soprattutto, cultura.
Proveremo a parlarne a Montagnaga di Pinè, sull’altopiano di Baselga, in Trentino. Al Wks de “Il Nodo di Gordio” tra il 22 e il 24 Luglio.