Vorrei iscrivermi al minoritario partito dei guastafeste finché ancora l’onda dell’enfasi per i risultati della Nazionale è al suo picco. E prima che si giochi una finale presumibilmente tutt’altro che facile da affrontare, considerando che il nostro avversario sarà l’Inghilterra.
Il mugugno di cui vogliamo fare outing si appunta su alcune questioni più specifiche e altre più generali. Partiamo dalle prime, e cioè dall’andamento della partita giocata contro la Spagna dagli azzurri e definita da qualcuno come la migliore dei nostri avversari, i quali sono in modo stereotipato considerati come i maestri del palleggio. Non si capisce è perché questa modalità di gioco non venga più definita, come si faceva un tempo, semplicemente “passaggi” o addirittura, quando viene adottata per perdere tempo, “melina”. Nella gran parte del tempo di gioco di Italia-Spagna infatti, soprattutto nei primi 90 minuti, abbiamo assistito a un onanistico “Tiki Taka” praticato senza un effettivo pressing avversario.
Anche gli azzurri sono considerati dei buoni palleggiatori ma questo in semifinale, molto spesso, ha comportato assistere ad azioni di gioco che sembravano dirette contro la nostra porta anziché verso quella avversaria. A volte persino dalla tre quarti, non appena si paventava all’orizzonte il rischio di un dribbling, i giocatori guidati da Roberto Mancini tendevano a passare la palla all’indietro, spegnendo qualunque velleità di verticalizzazione.
La colpa non è di Mancini ma dell’esasperazione progressiva di un’interpretazione del calcio eminentemente tattica, cominciata ormai decenni fa quando si è preso a parlare di gioco “a uomo” oppure “a zona” e, progressivamente, si sono cambiati tutti i nomi dei ruoli. Oggi non abbiamo più terzini, stopper o ali ma giocatori che corrono sulla “fascia” e altre equivalenze simili, che danno l’idea di quanto sia ormai prevalente il presidio del terreno di gioco e naturalmente, uber alles, il “modulo”, la disposizione dei giocatori in campo.

A chi, da una partita di calcio, vorrebbe sport, espressione tecnica e atletica, movimento e agonismo, questo tipo di calcio annoia in modo insopportabile, come è accaduto ieri. E si capisce come mai, nonostante il relativo aumento di successo del soccer negli Stati Uniti, gli yankees riescano a capire poco questa disciplina. Al contrario di altre da loro molto più amate come baseball, basket o football, dove le regole sono pressanti e costringono a dinamiche precise, in taluni casi più lente ma in altri, come nella pallacanestro, estremamente veloci, che consentono allo spettatore di godere di un gioco sempre vivace, fisico. E non, come è accaduto ieri e come accade spesso nelle partite di calcio, a 90 minuti abbondanti nei quali i tiri in porta si contano sulle dita di una mano.
Poi c’è un aspetto fastidioso, quello dell’entusiasmo dei tifosi etimologicamente inteso, che ieri sera si è espresso in caroselli di auto festanti dopo una vittoria ottenuta ai rigori, quindi più per demerito altrui che per merito nostro (restiamo dell’avviso che è un penalty non segnato è sempre sbagliato da chi lo tira, con buona pace di Francesco De Gregori). Tra l’altro, la fortunata coda dal dischetto consentito a Donnarumma di emendarsi da una partita nella quale aveva dato pessima prova di sé, sbagliando almeno quattro o cinque rinvii dai quali ci siamo salvati solo per nostra fortuna e, di nuovo, per una prestazione non proprio eccellente dal punto di vista tecnico degli spagnoli. Altrimenti il risultato al termine dei tempi regolamentari si sarebbe chiuso per noi in passivo e oggi staremmo parlando d’altro.
Proseguiamo la nostra lamentela con una dichiarazione esplicita di insofferenza per i commenti televisivi, affidati a coppie che non lasciano un solo secondo di silenzio alla partita, costringendo gli spettatori malmostosi a tenere il volume basso o chiuso del tutto. E che, soprattutto, intervengono esclusivamente per spiegare quello che è appena accaduto in campo come se si trattasse non di un mero resoconto ma di una loro invenzione teorica che i giocatori in campo hanno applicato.

Dispiace di esprimere una bocciatura così generale perché, dal punto di vista atletico, i giocatori di oggi sono invece notevolmente superiori ai campioni del passato che ci hanno fatto sognare. Basti pensare alla velocità, alcuni azzurri segnano tempi da gara dei 100 metri piani, e basti guardare i giochi circensi con i quali festeggiano i gol, dei quali i meno prestanti e meno preparati giocatori di un tempo non sarebbero stati mai capaci. Peraltro, la manfrina dei festeggiamenti dopo il gol è veramente diventata ridicola e insopportabile: l’abbiamo visto con Pogba che ha passato qualche minuto per autoincensarsi con le mossettine: mossa, per l’appunto, che certo non ha portato bene, visto come è finito l’incontro con la Svizzera.

Forse una ragione della non eccelsa simpatia che nutriamo per il calcio odierno è data anche dai giocatori, ma su questo non vogliamo essere scontati. È vero che molti di loro sono dei ragazzini viziati, un po’ come ce li descrive il bel film “Il campione”, in cui si descrive la vita di un giovanissimo giocatore della Roma incapace di gestire il proprio successo (pellicola che però non si può in alcun modo riferire a Totti, semmai il personaggio della pellicola potrebbe ricordare una sorta di Balotelli romanzato). Un altro film che consigliamo di vedere, all’opposto, è il “Divin codino”, pellicola agiografica su Roberto Baggio che, non a caso ne è anche coautore. Ma con questo non vogliamo rivangare una presunta migliore qualità dei campioni del passato, ripetiamo. Certo, con tutta la cautela dovuta alla frequenza dei casi di doping che si riscontrano nel ciclismo, chi si guadagna una medaglia o un titolo su una bicicletta, massacrandosi di una fatica disumana, ci ispiri in gnere una simpatia molto maggiore di chi insegue gli stessi risultati dando calci, pochi, a un pallone su un rettangolo d’erba.