Nel corso della mia professione mi è stato chiesto diverse volte di commentare un evento criminale “a caldo”, ma mi sono sempre rifiutato di farlo. Anzi, personalmente trovo scandalosa la consuetudine di intervenire nelle fasi immediate di un fatto, interpretando, supponendo e, magari, ipotizzando motivazioni e scenari molto aldilà di una ragionevole definizione.
È l’abitudine consolidata del diritto ad esprimere un’opinione, quando la realtà sia clinica che processuale – e non sempre le due impostazioni collimano – necessita di ponderazione, osservazione, analisi e approfondita valutazione di un reticolo relazionale. Tanto per capirci, dalla biografia del reo a quella della vittima e al contesto di appartenenza di entrambi.
Quindi, al quesito “cosa succede nella mente di una donna che uccide un figlio?” si può rispondere solo in termini generici, secondo parametri e indicatori della letteratura specialistica, anche per l’ovvia ragione che siamo tutti diversi e particolari.
Si può comunque iniziare dicendo che l’istinto materno è un concetto scorretto, perché l’essere umano non ha istinti. L’istinto è la risposta rigida ad uno stimolo, mentre i comportamenti dell’uomo sono determinati da un insieme di fattori, dall’apprendimento genitoriale, dalle influenze culturali, dalle relazioni primarie e da quelle sociali. La psiche è un’entità composita, data da innumerevole influenze e in continuo assestamento.
Un altro dato da confutare, legato a quello erroneo precedente, è il mito dell’amore materno. L’amore è un sentimento che si apprende per imitazione: chi non è stato, o non si è sentito, amato non può provarlo né condividerlo. Può cercare di comprenderlo razionalmente, di allenarsi a percepirlo, ma in questo caso basta una minima disconferma per fare tracollare questa certezza e, con essa, la stessa identità, che è indissolubilmente legata all’amore di sé. Dice San Matteo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ed in questa reciprocità è racchiusa la risposta cruciale.
Detto ciò, le pulsioni materne sono sempre ambivalenti. Duemila e quattrocentocinquanta anni fa, un certo Euripide, mise in scena Medea, un personaggio che dovrebbe dare del filo da torcere alle femministe scalpitanti e agli inventori dell’aggravante del femminicidio. Lei, moglie di Giasone, di fronte al ripudio deciso dal marito, uccide la rivale e i suoi stessi figli: “È il modo più sicuro per spezzare il cuore a mio marito”, risponde Medea al Coro che le domanda se veramente ne avesse coraggio. Oggi le cronache vengono riempite da crimini perpetrati dall’uomo all’insegna del “Mia o di nessun altro”, o uccidendo i figli per rabbia contro la moglie separata, o altre sanguinose variazioni sul tema.
Oltre alla morte fisica, la madre può anche esercitare una morte psicologica dei figli, quell’annichilimento che Lacan individua nella donna-coccodrillo, per una forma perversa di amore. Quella condizione simbiotica che per una importante psicoanalista, Marisa Fiumanò, è da evitare secondo le parole ironiche di Jean-Paul Hiltenbrand: “I Dieci Comandamenti prescrivono di onorare il padre e la madre, ma non di telefonare loro tre volte al giorno. Soprattutto non prescrivono di telefonare alla madre”.
Quindi, aldilà delle alterazioni mentali favorenti il comportamento omicidario – una depressione psicotica, un narcisismo distruttivo, un’aggressività maniacale –, la madre omicida è speculare al marito/amante omicida: la gelosia, la vendetta, l’astio, la frustrazione, la passione e tutte le variegate sfumature della miseria umana.
Che la Giustizia faccia il suo corso, si dice, ma quello della comprensione umana e psichica è molto più tortuoso e faticoso del semplice verdetto di condanna.