Forse l’unico modo per combattere il politicamente corretto consiste nel prevenirlo, nell’anticiparlo, nello sghignazzargli in faccia per mettere in ridicolo tutta la sua stupidità. Almeno per evitare di indignarsi a posteriori e inutilmente.
La stessa cosa andrebbe fatta nei confronti della cosiddetta Cancel Culture, quel fenomeno nato nei campus americani che vorrebbe fare piazza pulita di tutto ciò che non rientra nei parametri del politacally corect, e che vorrebbe ostracizzare ogni cosa che non risulti conforme alla presunta difesa delle minoranze. Così si sono prese di mira le statue dei grandi del passato, e si è preteso di eliminare dai programmi scolastici tutti quegli autori che, con il senno del poi, risulterebbero razzisti, sessisti, omofobi, e così via.
Un bel tentativo per prevenire la possibilità che anche il nostro cinema finisse nel tritacarne dei nuovi censori è stato operato da Alessandro Chetta, di cui è da poco apparso nelle librerie “Cancel cinema. I film italiani alla prova della neocensura” (Aras Edizioni, pp.204, €18,00).
Analizzando duecento film italiani usciti negli ultimi settant’anni, l’autore si domanda quale di questi si salverebbe se sottoposto alla nuova ondata di iconoclastia. E la risposta è molto semplice: nessuno. Come si potrebbero mai sopportare gli schiaffoni che il protagonista/regista Alberto Sordi rifila a Monica Vitti nel finale di Amore mio Aiutami? Oppure la descrizione dell’africa post coloniale che lo stesso Sordi presentò in Finchè c’è guerra c’è speranza del 1974? Per non parlare del trafficante di bambini nel “Giudizio universale” di De Sica. Di Anna Magnani che in “Bellissima” di Luchino Visconti dice all’attore Gastone Renzelli “damme ‘sti quattro schiaffi Spartaco”, o della fidanzata di Dudù che, in “Operazione San Gennaro”, scandisce la famosa battuta “meglio un pacchero che l’indifferenza”.
La carrellata di Chetta è irrefrenabile e pruduce effetti esilaranti.
Impossibile non mettere nel mucchio il principe Antonio De Curtis che in Totò Truffa del 1962 compare con la faccia colorata di nero, l’anello al naso e un modo di parlare barbugliante che imita i doppiatori italiani che prestavano la loro voce agli attori neri dei film di oltreoceano.
“Se tanti esempi – dice Chetta – vi appariranno inverosimili, impossibili da censurare, pensate a come avreste reagito nel 1980 se qualcuno vi avesse detto, con serietà, quasi con sussiego, che il bacio del Principe Azzurro a Biancaneve è immorale perché non consensuale”.
Proviamo infatti ad immaginare che putiferio si scatenerebbe se qualcuno oggi si sognasse di girare un film come Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto di Lina Wertmüller, in cui Giancarlo Giannini prende a schiaffoni Mariangela Melato chiamandola “bottana industriale”, o Gassman che in “Tosca” di Luigi Magni del ‘73 spiega a Monica Vitti che “la violenza alle donne non dispiace”; “Sì”, risponde lei, “ma dipende da chi gliela fa”.
Il fatto è che questi lungometraggi hanno segnato la nostra esistenza. La comicità svelava i vizi degli Italiani e, “au contraire”, hanno anche insegnato un po’ di educazione a un popolo come il nostro che zoticone lo è sempre stato.
Si spera solo che, leggendo il libro di Chetta, qualche programmatore non prenda nota dei titoli analizzati per bandirli per sempre dai palinsesti televisivi.
1 commento
“Meglio un pacchero che l indifferenza…”
Una serie di film e frasi geniali, rispetto all urlato idiota che è diventato il cinema italiano, ormai a livello delle tante fiction in voga.