Il cane e il lupo sono parenti stretti. Non dico fratelli, ma perlomeno cugini di primo o secondo o terzo grado a seconda dei casi. Ma parenti, comunque.
Si assomigliano. A volte sono quasi uguali. Ricordo il pastore di un mio amico. Un ricordo ormai lontano. Lo aveva chiamato Wolf…. poca fantasia, direte… Ma se lo aveste visto…
Era un Terwüren. Una variante del Belga. A pelo corto, di media taglia. Snello, fulmineo. Intelligentissimo. E… pericoloso. Perché non solo l’aspetto, ma anche l’istinto era ancora quello del Lupo dei Pirenei. Dal quale la sua razza – grazie a Dio per i cani si può ancora usare tale termine inviso alle anime belle – sembra discendere direttamente. Era un cane. Ma quando attaccava – perché si sentiva minacciato o riteneva minacciato il suo padrone – tornava lupo. Non alzava testa e coda abbaiando con orgoglio. Al contrario si chiudeva in un improvviso silenzio. Il silenzio delle foreste, cupe e minacciose, ove vivevano liberi i suoi remoti antenati. E abbassava la testa. Teneva la coda fra le zampe. Solo un orecchio molto fine, ed esercitato, avrebbe potuto avvertire il sordo brontolio di un ringhio. E attaccava. Rapido, imprevisto, micidiale. Spietato. L’ho visto mettere in fuga cani ben più grossi, e forti, di lui. Mastini, altri pastori. Ma loro erano dei cani. Abituati a certe regole. Ad obbedire. Lui, Wolf, in quel momento era altro. Un lupo. Selvaggio.
Pericoloso… soprattutto per gli uomini. Per malintenzionati che avessero osato violare la casa che era sua dimora. E tana. Perché lui non dava l’allarme. Attaccava, uscendo dalle ombre. E attaccava alla gola, come i lupi. Per quanto il mio amico avesse fatto – istruttori, centri cinofili… – era stato impossibile insegnargli ad attaccare il braccio. Per lui il nemico andava ucciso. Sgozzato. Nel modo più rapido e silente possibile.
Per il resto, quando prendeva confidenza, era un cucciolo giocattolone. Amava i bambini. Era affettuoso. Ogni tanto, però, il suo sguardo aveva un lampo selvaggio. E allora si avvicinava alla ciotola dell’acqua e, invece di lappare, suggeva. Come se si accostasse al greto di un torrente.
Era cane, Wolf, di cui serbo un ricordo vivido nonostante i tanti anni ormai trascorsi. Ma nel profondo della sua anima, ricordava di essere un lupo.
Anima? qualcuno si chiederà… Ma ha anima un cane?
Certo. In fondo la stessa parola “animale” deriva da “anima”. E Dante viene chiamato “animal grazioso e benigno” da Francesca, nell’Inferno…
I cani, i gatti, i cavalli, i criceti non sono bruti. Sono animali. Hanno anima, sentimenti, memorie. Pensiero. Diverso da quello che caratterizza noi “umani”. Per loro fortuna. Perché gli uomini, noi, abdichiamo di continuo al nostro pensiero. La paura ci rende bruti privi di anima. E ammantiamo questo da una, astratta e falsa, dialettica. Che ci dà un illusorio senso di superiorità..
Ma torniamo a Wolf. Al cane che ricordava di essere stato lupo. Ricordo non individuale, che gli veniva dal sangue. Dalla memoria collettiva della sua razza.
È come – per fare un esempio – se un grigio impiegato, un Travet – per dirla con l’ingiustamente dimenticato Bersezio – che conduce una vita monotona, condizionata da paure, servitù più o meno palesi, umiliazioni, improvvisamente… ricordasse.
Non ricordi personali, però. Soggettivi. La sua vita è sempre stata quella. Dalla nascita. Educato ad essere ciò che è. Null’altro.
Ricordi, piuttosto, remoti. Del suo sangue. Di antenati che vivevano in terre ancora selvagge. Che erano usi cingere la spada. E affrontare la morte in battaglia. Guerrieri celti o germanici, goti, longobardi… O predoni moreschi sbarcati dalle navi, o altro ancora…
Ricorda all’improvviso e i suoi occhi cambiano. Non è più prono ai suoi padroni. Supino alle sue paure. È… altro.. Non avviene. Non avviene più in noi uomini.
Ma negli occhi di un cane come Wolf, sì. Si accende, improvvisa, la luce di quelli del lupo. Un senso selvaggio e primordiale di libertà….