Ancora Caspar David Friedrich. Ancora il suo Viandante sul mare di nebbia. Vi sono quadri che divengono, nel tempo, ossessioni. Almeno per me. O meglio, filtri con cui guardi alle cose. Occhi e occhiali alternativi. Chiavi per leggere il Grande Libro del Mondo… E non conta se siano capolavori assoluti, riconosciuti tali dall’universo globo, od opere minori, di nicchia. Amate da pochi. Conta ciò che rappresentano per te. Sono, in certo qual modo, la tua quadreria personale. E segreta.
Nella mia vi sono alcuni capolavori. La Venere di Botticelli e un paio di opere di Waterhouse. Che hanno irrimediabilmente condizionato la mia idea del femminile. L’aereoplano di Sironi. Dalì, Il sogno. Una scultura, “il Cristo velato” di Cappella San Severo. Che mi provocò, la prima volta, quasi un’esperienza diretta della Sindrome di Standhal… L’affresco della Villa dei Misteri a Pompei. La Salomè di Klimt. Alcune cose di Segantini….
Tra queste il Viandante sul Mare di Nebbia. È un’immagine di solitudine. E, al contempo, di mistero. L’uomo viene definito “viandante”. Colui, dunque, che segue la via. O che la cerca. O che, per vie solitarie, va errando. Figura tipica del romanticismo, di cui Friedrich è uno dei massimi interpreti nella pittura. Echi poetici e letterari che risuonano. Vengono in mente “Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Maister”. Tra i capolavori di Goethe il meno noto. Il più autentico romanzo filosofico.
Il Viandante ha il tipico abbigliamento di chi, a inizio ‘800, andava a camminare fra i monti. E si inerpicava tra le vette. Cercando la solitudine. E il rapporto con una Natura selvaggia. Stupenda e, al tempo stesso, inquietante. Il ‘700, con le vacanze in villa, i piaceri arcadici della campagna, coltivata e ben ordinata, sembra ormai lontanissimo. Anche se il quadro è del 1818.
La figura del Viandante si staglia di spalle. In piedi su uno spuntone di roccia. È un uomo che ha faticato per arrivare sino a lì. E ora…si ferma. E guarda..
Guarda il vero protagonista del dipinto. Che è, appunto, il mare di nebbia. Che si stende ai suoi piedi. Dipinto con colori luminosi. Pennellate evanescenti, che fondono il giallo, il blu, il grigio… il bianco. E che, nella luminosa lievità, contastano con i colori più compatti, materici, cupi, delle cime rocciose con gruppi di alberi, che a tratti, emergono. Come isole nel mare, appunto. Il paesaggio dei Monti della Boemia, dicono.
Il Viandante, come dicevo, è di spalle. I capelli, rossi al vento. In mano un bastone da passeggio. Non vediamo il volto e gli occhi. Ma possiamo, comunque, intuire, anzi sentire, il suo sguardo.
Uno sguardo che sprofonda in quel mare di nebbia, che all’orizzonte si fonde con un cielo bigio. Diventa una cosa sola. Un senso di indeterminato, di naufragio nell’infinito.
Leopardi, certo. In fondo anche in lui, nel Recanatese, vi è un che di romantico. Ma in Leopardi l’infinito è immaginazione. Fantasia. Io nel pensier mi fingo…
Qui, invece, è visione. Percezione ed esperienza viva. Il mare di nebbia è lì. Davanti al viandante. Terribile e bellissimo.
Una diversa esperienza, ed espressione, dell’infinito. E, soprattutto, del mistero. L’immagine mi ricorda sempre Dante. L’incipit della Commedia. Il naufrago che dopo aver lottato con i flutti, raggiunge la riva. E guarda le acque in tempesta. È immagine di Lucrezio. Come sia giunta a Dante, però, non so dire. I percorsi della poesia restano, spesso, misteriosi.
Guardare dall’alto la nebbia da cui si è usciti, con fatica. E vederne, però, la bellezza. Intuire che le rocce, che emergono, sono sì salde, ma che non sono il vivere. Solo isole per naufraghi. Approdi cui ci si abbarbica, spaventati. Spaventati dal dover affrontare le iridescenze della nebbia. Il suo continuo fluire. E mutare.
Ma il Viandante è andato oltre. È uscito da quel mare di nebbia. E ora lo contempla dall’alto. Non più con paura. Perché ne può abbracciare, con lo sguardo, tutta l’infinita bellezza.