Molto si sta dibattendo su Gigi Buffon, sulla sua espulsione contro il Real e sulle sue dichiarazioni, contro l’arbitro inglese Oliver, a fine partita
Dichiarazioni decisamente “pesanti”, ma dettate dal momento, dalla rabbia per un’uscita di scena (della Juventus e dello stesso portiere, che a fine stagione smetterà) decretata, più che da Cristiano Ronaldo, da quel dubbio rigore deciso dal direttore di gara a un soffio dalla fine e con i tempi supplementari alle soglie.
I bianconeri avevano, fino a quel 98′, disputato la Partita Perfetta, ribaltando il 3-0 subito all’andata a Torino. Poi, la speranza si è frantumata in stupore, fiele e rancore. Addio semifinale…
Gigi Buffon, come succede in una Nazione fondata su Eupalla, ha diviso l’Italia, ricevendo il plauso dei suoi sostenitori e la gogna dei detrattori; persino l’ex compagno Alessandro Del Piero gli ha voltato le spalle. Insomma: siamo nel pieno di un pathos pallonaro (e lasciamo perdere l’uscita sbagliata di Stefano Tacconi…).
Conosco Buffon. È stato mio compagno di viaggio ai tempi in cui, direttore di La7 Sport, conducevo, con al fianco la bravissima Cristina Fantoni, la trasmissione, in onda tutti i lunedì in diretta, “Le partite non finiscono mai“. Con la Juve in B, e con Gigi che aveva scelto di restare a Torino malgrado il corteggiamento dei club più blasonati d’Europa, il numero uno si era ritagliato quell’angolo di quiete, dove poter esporre le proprie idee (sempre senza reticenze) e affrontare i temi calcistici più caldi: lui, da pochi mesi campione del mondo a Berlino con la nazionale azzurra guidata da Marcello Lippi.
Conosco Buffon, e non è tipo da mezze misure. In “quel” momento, a Madrid, si è sentito al centro di una bufera sportiva ed esistenziale: chiudeva la sua carriera internazionale con un cartellino rosso e con l’ennesimo sogno perduto di Champions League.
Le parole, oggi, pensate ai tanti salotti politici in TV, sono diventate difficili da maneggiare. Come gli aggettivi dopo Borges. Vince chi urla più forte, chi usa il linguaggio ruvido e volgare anche di fronte ad argomenti drammatici. Ma politici e, spesso, editorialisti di una qualche fama passano inosservati. Buffon, di professione portiere, no. Immaginate la sua frase (riferita sempre a Oliver): “Al posto del cuore ha un bidone dell’immondizia“. Dura, ma ho sentito di peggio. Chi è senza colpa, forza…
Gigi Buffon scrisse la prefazione al mio libro, edito da Einaudi, “I portieri del sogno“. E raccontò, alla perfezione, la vocazione e la filosofia dell’essere Numero 1. Un ruolo da letteratura, se pensiamo, ad esempio, citando alla rinfusa, a Peter Handke, Osvaldo Soriano, Jorge Amado e, persino, Cesare Pavese, per non parlare di Albert Camus, che in Algeria, tra i pali, ci giocò davvero (un consiglio di lettura: Emanuele Santi, “Il portiere e lo straniero“, L’asino d’oro, Roma 2013). Un ruolo che il fuoriclasse bianconero così descrive: “L’essere portiere non credo sia frutto di un ragionamento ponderato… non è un’addizione scontata. L’essere portiere è una folgorazione… una vocazione” (…) “Il portiere, non c’è niente da fare, è un predestinato… portiere lo sei… non lo diventi… portiere lo sei dentro… lo sei nella vita quotidiana… lo sei fra i banchi di scuola… in mezzo agli amici. Il portiere è una figura che agli occhi degli altri è coraggiosa, impavida, matterella, carismatica, e forse anche un po’ immatura“.
Ecco: qui c’è tutto il mio amico Gigi.
Una nuvola d’ira non cancella il professionista. Soprattutto non cancella l’uomo.