“Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia
Non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia” (Claudio Lolli)
“I borghesi son tutti dei porci
Più sono grassi più sono lerci
Più son lerci e più c’hanno i milioni
I borghesi son tutti..” (Giorgio Gaber riprendendo Jacques Brel)
In Italia la borghesia non è mai stata molto amata. Né dalla cultura né dalla politica. E pazienza se sia la cultura sia la politica sia sempre stata incarnata (con rare eccezioni e per nulla entusiasmanti) da chi proveniva dalla borghesia nazionale. Perché, nell’immaginario collettivo, appartenere al ceto medio era un dato di fatto innegabile, ma precisando di non aver nulla a che spartire con lo spirito borghese. Il borghese era il bottegaio, timoroso di tutto, attaccato ai soldi, privo di slanci, senza ideali, servile nei confronti dei potenti e feroce verso i più deboli.
Sarà per questo che la destra fluida di governo, assicurando di voler difendere il ceto medio, si è limitata a favorire una eventuale evasione fiscale dei lavoratori autonomi ignorando, innanzitutto, che avere la partita Iva non trasforma tutti in evasori. E, soprattutto, che del ceto medio fanno parte anche i lavoratori dipendenti, dalla sanità pubblica alla scuola, dagli ingegneri ai lavoratori della cultura. Ma la destra fluida, quando sente parlare di cultura, mette mano… ad una stangata fiscale contro chi non ha un lavoro autonomo. Salvo, poi, spedire in tv i vari Gianni e Pinotto di turno a protestare contro chi non accetta di lavorare per un tozzo di pane (raffermo, ovviamente).
Nei giorni scorsi, su Electomagazine, sono stati riportati i casi di grandi Paesi come l’India e l’Indonesia (quasi 1,7 miliardi di abitanti complessivi) che hanno messo in campo precise strategie per far crescere, e rapidamente, il ceto medio nei rispettivi Paesi. Ma non sono gli unici. Tutti gli aderenti all’Asean – l’Associazione delle nazioni dell’Asia del Sud Est – hanno il medesimo obiettivo. E ne fanno parte Stati estremamente diversi tra loro come popolazione, ricchezza, tipo di economia e di regime politico. Dalla stessa Indonesia alle Filippine, dal Vietnam alla Cambogia, dal Brunei a Singapore, dalla Thailandia al Laos. Oltre 700 milioni di abitanti che, nel 2030, potrebbero rappresentare la quarta potenza economica mondiale, anche perché la crescita dei Paesi ASEAN è la più alta a livello globale.
Ed è basata soprattutto sullo sviluppo dell’economia dell’intelligenza, sostenuta da un ceto medio giovane ed in rapida espansione numerica, favorita dal miglioramento della situazione economica individuale. Ovviamente il reddito pro capite anche di questa fascia della popolazione resta lontano dai livelli europei ma ciò che conta, a livello di stimolo personale, è la continua crescita della retribuzione e della capacità di spesa.
Cioè l’esatto contrario delle politiche economiche italiane basate sul maggior sfruttamento, la riduzione del reddito individuale in rapporto al costo della vita, l’impossibilità di sperare nel futuro. È il simbolo perfetto di una società (non è il caso di sprecare il termine “civiltà” per ciò che offre oggi l’Italia) che è arrivata a fine corsa. Che si limita a sopravvivere perché ha il terrore di pensare in grande. Ovviamente vale anche per l’Europa, seppur a velocità diverse a seconda della nazione. Le tasse e i balzelli vari – come l’obbligo di ristrutturare le abitazioni a prezzi folli – servono solo a derubare il ceto medio ed a spazzarlo via, lasciando tutto il potere nelle mani degli oligarchi.
E ci si ritrova a rimpiangere non solo il ceto medio ma anche la borghesia. Quella che – come sosteneva Gaber – aveva dignità e consistenza. A differenza dei contemporanei ossessionati dal politicamente corretto.
“Viene fuori una figura pulita quasi bianca, dissanguata
Una presenza con pochissimo spessore che non lascia la sua traccia
Una presenza di nessuna consistenza che si squaglia, si sfilaccia
Viene fuori, viene fuori una figura disossata
Che a pensarci proprio bene nell’insieme dà l’idea di libertà…”
È l’Italia, bellezza. O ciò che ne resta.