È il partito delle tasse, dell’immigrazione senza controlli, del più squallido servilismo nei confronti di Washington. È il partito dei tecnocrati più assurdi, degli spocchiosi frequentatori di Capalbio e Courmayeur, dei radical chic che non sopportano il puzzo delle classi inferiori. Ed è pure guidato da un segretario di scarsissima simpatia. Eppure il Pd vince. Nelle grandi città, per ora. Con alleanze che assomigliano ad ammucchiate senza senso. Però funzionano.
Troppo comodo, per gli avversari, invocare le solite scuse: l’appoggio degli ex grandi quotidiani, della maggior parte delle reti tv, dei giornalisti, cantanti, conduttori, scrittori. E poi la giustizia ad orologeria, le inchieste farlocche, il sostegno del grande capitale. Tutto vero, certo, ma non è caduto dal cielo.
Invece di dedicarsi al lamento continuo (che fa fine e, soprattutto, non impegna), gli avversari del Pd potrebbero provare a studiare il percorso che ha portato a questa situazione. Partendo dal Pci del dopoguerra. Finita l’ammucchiata post bellica ed iniziato il dominio Dc, non è che il Pci godesse di buona stampa. Non è che avesse ampi spazi sull’unico canale Rai che censurava anche le gambe delle ballerine. Dunque ha utilizzato il denaro in arrivo da Mosca per crearsi i suoi quotidiani, le sue case editrici, i suoi centri di potere culturale. Ed ha spedito i suoi giovani migliori a studiare per diventare magistrati, per far carriera nelle università o anche solo per insegnare nelle scuole dalle elementari ai licei. I giornalisti venivano sostenuti nelle carriere e non erano parcheggiati in attesa di diventare deputati e senatori.
Quando, dopo tangentopoli, si è creata l’alleanza tra Pci e parte della Dc, si sono saldate anche le rispettive esperienze nella gestione del potere ad ogni livello.
Così, mentre le varie trasformazioni del centrosinistra continuavano a garantirsi il monopolio dell’informazione cartacea, delle carriere universitarie, della magistratura, dei canali Rai, della scuola, delle manifestazioni culturali di ogni genere, gli avversari si entusiasmavano come adolescenti brufolosi di fronte a tette e culi offerti dalla reti berlusconiane. Chi si iscriveva a Giurisprudenza voleva fare l’avvocato, non il magistrato. Le università erano considerate una perdita di tempo rispetto al guadagno immediato nel negozio o nella fabbrichetta di famiglia. La Kultura era roba da Komunisti, i soldi incassati servivano per mantenere amanti varie e non per investire nell’informazione alternativa.
Quando il centrodestra ha governato non è stato capace di cambiare la Rai (o non ha voluto per servilismo nei confronti del sultano di Arcore), non ha cambiato la magistratura, non ha mosso un dito per la cultura, non ha inciso sui vertici dei grandi gruppi industriali con capitale pubblico.
Così ora non resta che lamentarsi per l’egemonia del Pd, per la giustizia del Pd, per l’informazione del Pd. Perché è più facile frignare invece di provare a studiare, a capire. L’Unità, il Manifesto, Lotta Continua sono il passato. Ora la gauche caviar ha tv pubbliche e private (compreso il Tg5), ha i principali quotidiani, ha il controllo del mercato librario e delle più pubblicizzate manifestazioni librarie.
Il centrodestra ha piccoli quotidiani, una rete Mediaset, una in Rai che produce programmi senza alcun seguito poiché di una noia mortale. Però protesta perché il Pd è sostenuto da vari imprenditori (dagli Elkann a De Benedetti, ma l’elenco è lunghissimo) mentre gli imprenditori considerati di destra preferiscono comprarsi delle ville.
Così una sinistra considerata minoritaria nel Paese riesce a governare le principali città ma, soprattutto, ad imporre la propria visione sull’immigrazione, sul sesso, sulla storia, sulla cultura, sui festival musicali, sulle tasse. Mentre Berlusconi pensa a nuovi amori, Salvini a nuove foto con panini, Meloni a lamentarsi di tutto e di tutti.