E, all’improvviso, è arrivato il freddo. Sino all’altro ieri sembrava ancora estate. Per lo meno nelle ore centrali del giorno. Una di quelle ottobrate che a Roma, un tempo, erano famose. E interminabili. Sempre vantate come un pregio della città. Del suo clima particolarmente mite e felice, simbolo, in fondo, di un buon vivere. Di una città che, per quanto grande, era ancora, come si suol dire con frase trita e fatta, a misura d’uomo.
Una Roma di quartieri e borgate che erano, in tutto e per tutto, dei paesi. Dove tutti si conoscevano e salutavano. Magari una città un poco approssimativa, plebea… Non una grande capitale europea, dicevano le anime raffinate e snob, che sognavano Londra e Manhattan. Perché, come si sa, l’erba del vicino…scusatemi, evidentemente oggi è giornata di frasi fatte. Capita…
Comunque, era una città simpatica. Ne avevo avuto vari assaggi pur non vivendovi. Ma quando vi venivo, mi piaceva. Mi sentivo a mio agio. Ci stavo bene.
Inutile dire che quella Roma, che sembrava ancora risuonare delle note di Rugantino e della voce di Lando Fiorini, non esiste più. Quella di oggi è un centro storico degradato, macchina per macinare turisti, per altro ora inceppata. E una vasta periferia, anonimi dormitori, medio borghesi, dove neppure saluti più il vicino di appartamento. Paradigma della solitudine urbana. Con tutti i difetti della megalopoli formicaio senza, però, esserlo davvero. E quindi senza averne i, pochi, pregi.
Comunque, anche le ottobrate non sono più quelle di un tempo, mi dicono gli amici romani. E il freddo, questo freddo che ti entra nelle ossa con un vento grigio come il cielo sopra di noi, ci ha sorpreso ai primi del mese che apre l’Autunno. E per le vie vedi gente infreddolita che si affretta, ché il vestiario è ancora, per lo più, quello estivo. Magliette a maniche corte, su cui ci si butta, in fretta e furia, una giacca a vento leggera. Pantaloni leggeri, scarpe bianche e sandali aperti, ballerine…
Qualcuno, però, è stato più previdente. Ed il vestiario è già completamente autunnale. Il contrasto, per le vie, è stridente. È come se si vivesse in due stagioni parallele. E, per altro, in due mondi diversi. Perché c’è chi per strada o in auto continua a girare con mascherine, una o più, caschi protettivi, guanti… E altri che sembrano normali. O meglio, così come si era normali sino a due anni fa…. Insomma, la nostra, banale, distopia quotidiana….
Fa freddo davvero, però. Camminando – quando ancora il sole si sta appena affacciando con un vago alone grigio giallognolo dietro alle ombre oscure dei Colli Tiburtini – provo quasi la sensazione di essere altrove. Una sensazione, e una fantasia. Un amico, con cui sono uso sentirmi al primo mattino, mi ha detto che in montagna nevica. A bassa quota poco più di mille metri.
“La locanda del Burbiz è già immersa nella neve” ha aggiunto.
E io ho visto, con la fantasia, il grande paiolo di rame dove cuoce una polenta di grana grezza, e avvertito nell’aria il profumo, intensamente speziato, del goulash…
Un freddo diverso, quello della montagna. Più penetrante, e, però, meno fastidioso. Anzi, piacevole. Perché ti avvolge, certo, ma non ti lascia intirizzito. E non solo per una questione di umidità, perché, come si usa dire, in montagna è più secco, cosa, per altro non vera, visti quanti ruscelli discendono dai ghiacciai per i declivi, e vanno ad innervare con una rete d’acque gli altipiani e le valli, rendendoli, in estate, verdissimi. E generando quella foschia che dà, nell’aurora, ai boschi quell’atmosfera magica, quasi uscissero da una vecchia fiaba dei Grimm. O da una pagina di Tolkien.
No. Il freddo in montagna dà meno fastidio perché evoca sensazioni ed emozioni che infondono calore. Tu cammini nella neve. E senti un vento che ti taglia la pelle. E l’aria gelida intorno a te sembra di cristallo. Tuttavia qualcosa ti parla già del camino acceso, del profumo di abete di una stanza calda. Del brulè fumante che sa di Cannella e chiodi di garofano…
Lo so… cartoline d’altri tempi. Oleografie dell’inverno. Scontate, mi si dirà. Eppure… è un freddo, a suo modo, accogliente. Piacevole.
Tutt’altra cosa da questo. Il freddo della città nel primo mattino di, vero, autunno. Che ti lascia intirizzito. E ti fa sentire diaccia l’anima. Questo è un freddo che nulla riesce a fugare. Te lo porti dietro nei luoghi dove lavori, uffici, aule scolastiche, corridoi…dove ogni relazione umana si va sempre più alienando, paralizzata dalla burocrazia, dalla paura, dall’utopia, assurda e demoniaca, di una immortalità fisica.
E te li porti dietro anche nella casa dove abiti, spesso anonimi moduli tipo celle di alveare, arredate in modo asettico, sterile… case senza calore, appunto.
Mi stringo, istintivamente, nella sahariana autunnale che ho buttato sulle spalle prima di uscire di casa. Accendo la pipa. E mi avvio verso il lavoro. Il sole sta sorgendo. Forse riporterà un po’ di calore. Forse…